Un’oppressione intellettuale, un affanno che preme

Paolo Giordano Corriere della Sera 25 ottobre 2022
Un’oppressione intellettuale, un affanno che preme
Il fatto che temi come l’aborto, le coppie di fatto, il mixing religioso tornino nei dibattiti può produrre un effetto soffocante

 

 

È possibile che alcuni di noi avvertano, da alcune settimane a questa parte, un senso crescente di oppressione intellettuale. Una specie di affanno. Durante la campagna elettorale e poi nei giorni che hanno preceduto l’insediamento del governo, l’affanno si è sfogato principalmente nel cercare analogie con un passato che la nostra Costituzione sigilla come tabù. In realtà, l’affanno è più nuovo di così, più indistinto e meno nominabile. Non riguarda neppure strettamente l’esito elettorale: prova ne è il fatto, ormai evidente, che la presidente Meloni attiri a sé una curiosità benevola anche da dove non ce la si aspetterebbe. L’affanno di oggi è più simile a una premonizione: quella di ritrovarci, in un tempo breve, ad abitare una realtà non più sincronizzata sul nostro sentire. In un presente meno moderno di quello che percepiamo intimamente. È come se si affacciasse un paradosso: è possibile che una somma di individui con un certo livello medio di emancipazione produca una società meno emancipata di quella media?

È vero, per il momento si tratta di fantasmi, dell’analisi biografica di alcuni nuovi esponenti di governo, di loro dichiarazioni ripescate dal passato, per altro subito temperate da ritrattazioni e rassicurazioni. Ma in questo dominio ipotetico qualcosa di reale si è già prodotto. È sufficiente seguire un qualunque talk televisivo per constatare che argomenti come il diritto all’aborto, la legittimità delle coppie di fatto e della comunità lgbtq+, il mixing religioso, sono tornati a impegnare i dibattiti. Non è chiaro quanti e quali di questi ambiti verranno davvero intaccati dal nuovo ordine politico (ci auguriamo nessuno), ma il fatto stesso che si proceda alla loro messa in discussione — per convenienza, per pigrizia intellettuale, per spregiudicatezza — produce su alcuni di noi un effetto soffocante. Insieme all’impressione, quasi inconfessabile, che conversazioni del genere non siano neppure il prodotto di un vero, sano funzionamento democratico, semmai di una sua aberrazione elettoral-mediatica.

L’affanno e il senso di soffocamento colpiscono più duramente chi si sente implicato in prima persona. Le donne che hanno avuto, stanno per avere o pensano che potrebbero avere un’interruzione di gravidanza, chi si percepisce per qualche ragione al confine dell’essere «italiano», le famiglie non convenzionali, le coppie senza figli e perfino — in un processo di esclusione implicita — chi in coppia non è. Un gruppo ampio e variegato che eccede di gran lunga la percentuale di coloro che hanno votato per il centrodestra, e in larga parte gli si sovrappone. Per tutti loro — per tutti noi —, prima ancora che venga avanzata una singola proposta di legge che porti al detrimento dei diritti, il detrimento c’è già stato, e consiste nell’aver rimesso al centro del discorso una «norma» rispetto alla quale valutare il proprio livello di deviazione: una norma di desiderio, una norma di composizione famigliare, una norma di credo, di appartenenza, e adesso anche di «merito». Chiunque si trovi in un territorio di marginalità o di intersezione, in una qualsiasi condizione «immeritevole», è costretto a ricordarsi oggi con più insistenza, e quindi con più dolore, della propria minorità. Tutto questo, lo ripeto, è già successo.

In un momento così può essere di conforto, e forse di parziale aiuto, alzare un po’ lo sguardo. E ricordarsi — come di continuo ricordavano a me da bambino — di non camminare guardandosi i piedi. Di sollevare gli occhi invece, includendo un po’ di cielo e di orizzonte. Perché a considerare il cielo e l’orizzonte, il quadro appare abbastanza diverso. Mi riferisco in particolare a ciò che la scienza contemporanea ci sta mostrando, e più in generale all’evoluzione del pensiero: in una varietà di discipline, proprio quelle condizioni che ora ci appaiono indebolite politicamente — la contaminazione, la marginalità, la non-appartenenza, la non-gerarchia, perfino il «demerito» — si stanno invece rivelando le fonti di interesse principale, e stanno rovesciando il nostro modo di vedere il mondo. La biologia, per esempio, cerca di capire cosa ci accadrà in futuro esaminando le zone «intertidali», quelle coperte e liberate a turno dalle maree, che ospitano degli ecosistemi rigogliosi ma fragili. La botanica ci parla di organismi vegetali in comunicazione, e perfino a modo loro in movimento: di piante migranti insomma, qualcosa d’impensabile fino a pochi anni fa. Nel frattempo, ancora più a fondo nella materia, la microbiologia scopre la rilevanza del trasporto genico, complicando a dismisura qualsiasi tentativo di classificazione statica degli esseri viventi, delle specie, figurarsi degli esseri umani.

L’antropologia rimette in discussione i suoi assiomi e s’interroga sull’importanza delle civiltà che vivevano ai margini dei grandi imperi, in condizioni alternate di nomadismo e stanzialità. La sociologia e l’economia prendono ispirazione dalla (dis)organizzazione delle comunità spontanee che si creano attorno alla raccolta periodica dei funghi, e dai funghi stessi si cerca di capire come funzionano le reti prive di centro, per poi imitarle nella progettazione dei trasporti urbani. Altre forme elevate di intelligenza, anch’esse decentrate e misteriose, vengono ricercate nei cefalopodi. Perfino in astrofisica si va verso l’idea che tutto ciò che di rilevante c’è da conoscere di un buco nero lo si possa leggere dai suoi bordi. Per non parlare di ambiti come il femminismo e gli studi di genere, dove la tendenza a guardare le intersezioni è presente da molto tempo.

Insomma, la norma, la gerarchia e l’identità intesa in senso immobile interessano sempre meno gli studiosi. Appaiono concetti esausti, fuori tempo. Al loro posto si affaccia un pensiero ancora inafferrabile, perfino confuso — me ne rendo conto —, ma molto più promettente: che il futuro sia nei margini, nelle zone di ibridazione, nel meticciato, anche se ora come ora può sembrarci il contrario.

Non sono idee «di sinistra», queste. Anzi, a rifletterci meglio viene quasi da dire il contrario: che il pensiero di sinistra è in difficoltà rispetto al moltiplicarsi dei territori di confine che non ha ancora avuto la capacità di accogliere, come imporrebbe la sua vocazione. Rispetto alle istanze più reazionarie, più tradizionaliste e identitarie, ha subìto con maggiore forza gli urti di un’epoca in così rapida evoluzione. Marginalità, transizionalità, crollo delle gerarchie sono per tutti noi, indistintamente, dei pensieri vertiginosi. La generale spinta retrograda che si osserva nel mondo può essere facilmente interpretata come un moto difensivo. Un freno alla vertigine. Ci vorrà del tempo per capire se il freno sarà così saldo da arrestare o addirittura flettere la traiettoria. L’esito non è scontato, anche perché scienza e politica non esistono separatamente, bensì in un rapporto dinamico. Certi tipi di ricerca sono possibili in determinate condizioni, meno in altre, e la libertà scientifica necessita come tutto il resto di una legittimazione politica. Ma è vero anche il contrario. Sarà solo un vizio di speranza, ma a me sembra più probabile che, alla fine, sia ciò che stiamo scoprendo della realtà, studiandola, a tradursi in una concezione nuova della realtà stessa — una concezione più vasta, fantasiosa e liminare, più vicina a quella che in molti serbiamo già in segreto.

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