Gli “sfavoriti” di Meloni richiamano il “popolo dei dimenticati” di Trump

Maurizio Molinari La Repubblica 26 ottobre 2022
Giorgia Meloni, l’underdog del sovranismo
È attorno a questo concetto che ruota il discorso della premier ovvero il progetto politico di dare voce, proteggere e rappresentare tutti coloro che sono o si sentono “sfavoriti”

 

La prima donna premier della storia repubblicana si è insediata con un programma sovranista che punta a conquistare la leadership permanente dei ceti “sfavoriti” ma il prezzo che paga è non esprimere una chiara visione del ruolo dell’Italia sul terreno dei nuovi diritti e sul palcoscenico globale del XXI secolo.

In quanto donna, Giorgia Meloni rappresenta una svolta a lungo attesa alla guida del governo del Paese, che ci consente di colmare un ritardo grave rispetto ad altre democrazie avanzate. Ma quando si è trattato di presentarsi davanti al Parlamento, oltre a elencare alcune delle donne che – prima di lei – sono state protagoniste della costruzione nazionale, ha scelto di definirsi con il termine “underdog”, che ha tradotto con “sfavorito”.

È attorno a questo concetto che ruota il suo discorso ovvero il progetto politico di dare voce, proteggere e rappresentare tutti coloro che sono o si sentono “sfavoriti”. Lavoratori e disoccupati, giovani e anziani. Chiunque percepisce di trovarsi in una posizione di vulnerabilità e debolezza è la priorità dell’azione politica della prima donna-premier: poiché lei è stata “sfavorita” nel corso della sua vita, lei ora vuole soccorrere chi lo è altrettanto.

È lo stesso approccio al popolo dei disagiati che portò Donald Trump, sui gradini del Campidoglio di Washington, il giorno dell’insediamento alla presidenza, 20 gennaio 2017, a rivolgersi ai “forgotten people”, ai “dimenticati”: alle vittime delle diseguaglianze a cui nessun partito, istituzione, leader si interessa più.

E gli “sfavoriti” di Meloni assomigliano ancor più ai “dimenticati” di Trump, quando lei si sofferma sui “giovani che si autoescludono dal circuito formativo e lavorativo” dando vita ad una “crescente emergenza delle devianze fatte di droga, alcolismo e criminalità”. Anche Trump tracciò un legame diretto fra gli americani “dimenticati” e le stesse, terribili, piaghe sociali all’origine di una “carneficina” sociale.

L’altra convergenza con Trump, quasi letterale, è nell’avversione alle “misure restrittive” che ci hanno difeso dalla pandemia Covid-19. “Hanno limitato le nostre libertà fondamentali” afferma Meloni, dimenticando che ci hanno anche protetto quando i vaccini ancora non erano disponibili.

Allora a Washington come oggi a Roma, è il linguaggio con il quale la destra sovranista risponde alla piaga delle diseguaglianze, proponendosi di ascoltare, risollevare, soccorrere chi si sente emarginato, scartato, perdente, privato della propria libertà.

L’obiettivo di questa sfida è impossessarsi del consenso dei ceti disagiati, vittime delle ferite della globalizzazione, e mantenerlo il più a lungo possibile per strappare in maniera strategica al rivale fronte progressista un settore dell’elettorato senza il quale, numeri alla mano, non può tornare a vincere.

Dopo essere stata protagonista di una campagna elettorale nel segno del “popolo contro il potere”, Meloni declina così il sovranismo italiano come una sorta di scudo – dall’ambiente al cibo, fino ai migranti – per difendere gli italiani da ogni pericolo, esaltando al tempo stesso ogni loro potenzialità.

È una ricetta politica che si unisce alla conferma della fedeltà alle alleanze tradizionali – Ue e Nato – e dunque alla determinazione a difendere l’Ucraina aggredita dall’invasione russa con una sovrapposizione fra schieramento pro-democrazie e sovranismo politico-culturale che evoca da vicino scelte e caratteristiche dei partiti conservatori che guidano i governi a Varsavia e Praga.

Resta da vedere se questo delicato equilibrismo resisterà alla prova dell’affermazione di nuovi e vecchi diritti – dall’aborto a quelli di genere, dal clima al digitale – su cui si confrontano le democrazie in Nordamerica ed in Europa nell’approccio ad una società globale sempre più interconnessa, dove ogni tipologia di confine costituisce un ostacolo a conoscenza, ricerca e sviluppo.

Ma Meloni nel suo discorso non ha illustrato la propria visione del ruolo dell’Italia sul palcoscenico della competizione globale e questa è la più netta differenza dal predecessore Mario Draghi.

Ultimo, ma non per importanza, la denuncia del fascismo che Meloni ha fatto, tornando a legarla all’orrore delle leggi razziali ma evitando di estenderla con chiarezza anche al periodo dal 1922 al 1938.

Un’occasione mancata perché una destra che vuole essere interprete dello spirito repubblicano e protagonista della Costituzione nata dall’antifascismo non può dimenticare che la Marcia su Roma – di cui sta per ricorrere il centenario – portò a violare i principi di libertà ed eguaglianza che gli italiani avevano conquistato a caro prezzo grazie al Risorgimento.

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