Se la guerra prevale sulla politica, questa guerra diventa infinita

Carlo Galli La Stampa 26 ottobre 2022
Date una chance alla pace
La ricerca di una soluzione giusta può portare a una guerra infinita

 

 

Secondo Clausewitz, la guerra è un atto della politica, una sorta di sanguinosa partita a scacchi in cui il cervello calcolante è lo Stato, mentre gli eserciti ne sono il braccio armato. Effettivamente quando la guerra inizia è possibile comprendere le cause del conflitto, e determinarne razionalmente i fini. Ma spesso la situazione si capovolge, ed è la guerra ad attrarre a sé la politica, a risucchiarla nelle proprie logiche.

Qualcosa di simile avvenne nella Prima guerra mondiale. Allora, dopo il fallimento dello sforzo iniziale dell’aggressore (la Germania), il conflitto si impantanò in una guerra di logoramento. Per quattro anni sul fronte occidentale non capitò nulla di nuovo se non la morte meccanica di massa. La politica era incapace di andare al di là dell’ostinato perseguimento di una pace vittoriosa attraverso la distruzione delle forze armate dell’avversario, e il suo dissanguamento. Invano il pontefice Benedetto XV chiese la cessazione della “inutile strage”, che si fermò soltanto quando la Germania collassò dall’interno.

Fatte le ovvie differenze politiche e tecnologiche, è più o meno questa la situazione nella quale ci si trova oggi: lo scontro si è trasformato in una guerra estenuante, in cui la politica sembra non potere fare altro che assecondare le logiche militari. Pare che entrambi i contendenti – Ucraina più blocco occidentale da una parte, Russia dall’altra – non vedano altra chance che puntare sul logoramento dell’avversario fino al suo esaurimento fisico e morale. Certo, anche questo sembra un calcolo razionale, volto a raggiungere quella che per ciascuno dei contendenti è una “pace giusta”: per gli uni, il trionfo di un’idea imperiale teologicamente fondata, per gli altri il ristabilimento della legalità internazionale violata.

Ancora una volta siamo davanti a una analogia con la Prima guerra mondiale, il cui esito, il Trattato di Versailles, fu una pace giusta, naturalmente nell’ottica dei vincitori: al nemico vinto vennero addebitate tutte le responsabilità e tutti i costi della guerra, e al Kaiser fu minacciato un processo penale per avere violato la santità dei trattati internazionali. Al di là del fatto che quella pace fu una delle cause della Seconda guerra mondiale, chi oggi vuole “pace nella giustizia” deve sapere che chiede più o meno il ritiro delle forze armate russe da tutti i territori occupati e forse anche dalla Crimea, l’obbligo per la Russia di ricostruire ciò che è stato distrutto, punizioni per tutta la catena di comando responsabile della guerra e delle atrocità che sono state compiute.

Se questa pace è il fine politico della guerra si tratta in realtà di un perfezionismo giuridico e morale, comprensibile, che porta la politica a essere coinvolta nella logica della guerra. La ragione politica di questo tipo implica infatti la prosecuzione dello scontro finché uno dei due nemici si arrende, o muore. Ma questa razionalità è in realtà un azzardo, un salto nel buio, perché, al di là del fatto che prima di capitolare la Russia può fare ricorso all’atomica, non è facile piegare militarmente ed economicamente quell’immenso Paese. Se è improbabile questo tipo di soluzione del conflitto, lo è anche la “pace giusta” intesa come il trionfo dell’idea imperiale russa, con l’assoggettamento dell’Ucraina nell’impossibile silenzio acquiescente dell’Occidente. La ricerca della “pace giusta” rischia insomma di rovesciarsi in una “guerra infinita”, il più ingiusto dei futuri possibili.

Di fatto, se finora la Russia non collassa, e l’Ucraina non è sconfitta, la pace di compromesso è l’alternativa obbligata. Certo, ciò richiede che si accetti che una quota di ingiustizia faccia parte della soluzione. Triste prospettiva, praticabile solo se i sacrifici saranno distribuiti fra le parti, o forse fra tutta la comunità internazionale – che dalla guerra è già coinvolta –, da una ragione calcolante in termini di costi e benefici, come avvenne nel 1962 per la crisi di Cuba, risolta con cessioni bilaterali. E se fosse vero che oggi i contendenti stanno puntando al compromesso, ma che prima di cominciare a trattare vogliono assicurarsi vantaggi sul campo, tentando un’ultima spallata, si tratterebbe di un disegno cinico ma realistico. Vorrebbe dire che sanno di doversi fermare, prima o poi. Che la guerra non ha del tutto attratto a sé la politica. Ma allora sarebbe nostro diritto chiedere: di quanti morti, di quante distruzioni, avete ancora bisogno, per dare alla pace una chance?

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