Regno Unito, la fine del brexitismo ma nessuno lo dice

Timothy Garton Ash La Repubblica 27 ottobre 2022
Regno Unito, Rishi Sunak e la fine del brexitismo
Londra ha finalmente iniziato il viaggio di ritorno, lungo e doloroso, dalle illusioni della Brexit

 

 

L’ascesa confusa di Rishi Sunak a primo ministro britannico segna la fine non solo della Brexit, ma anche del brexitismo, l’ideologia basata sull’illusione che la Gran Bretagna possa andare per la sua strada, culminata nella farsa del breve governo di Liz Truss.

Le politiche trussonomiche hanno portato la logica del brexitismo a un estremo assurdo, con risultati prevedibili. Negli ultimi otto anni, sotto questo partito conservatore, la Gran Bretagna è precipitata dall’euroscetticismo pragmatico di David Cameron alla Brexit medio-soft proposta da Theresa May, fino alla hard Brexit di Boris Johnson, e quindi alla fantasy Brexit, la Brexit fuori dal mondo di Truss.

La rivoluzione della Brexit ha seguito i passaggi classici delle rivoluzioni, solo che mentre “la rivoluzione che divora i suoi figli” ha tradizionalmente comportato una radicalizzazione a sinistra, ora la radicalizzazione è a destra.

“Abbiamo delineato la visione di un’economia a bassa fiscalità e ad alta crescita che sfrutti il vantaggio delle libertà della Brexit” ha detto Truss nel discorso di dimissioni. Quella visione era un’illusione: tagliamo le tasse, buttiamo al rogo le regole, incentiviamo i ricchi ed ecco che miracolosamente la Gran Bretagna tornerà al magnifico dinamismo del XIX secolo. Un percorso iniziato con lo slogan “riprendiamo il controllo” è terminato con una perdita di controllo.

La realtà ha riacciuffato i brexitisti e l’opinione pubblica torna coi piedi per terra. Se si andasse alle urne domani e gli elettori rispettassero le dichiarazioni di voto rese ai sondaggisti, i conservatori sarebbero spazzati via. E la fiducia nella Brexit sembra essersi infranta. In un sondaggio YouGov, solo il 34% degli intervistati ha detto che la scelta di uscire dall’Ue è stata giusta, il 54% l’ha definita sbagliata.

Ovviamente non tutti i guai economici si devono alla Brexit. Già prima del voto del 2016 il Paese aveva problemi cronici di produttività, con un’eccessiva dipendenza dal settore finanziario e un grave deficit in formazione e competenze. Ma con lo svanire dell’effetto della pandemia l’impatto della Brexit si fa più evidente.

Su numerosi indicatori, quali gli investimenti delle imprese e la ripresa commerciale, l’economia britannica ha fatto peggio di ogni altra nel G7. Il numero delle piccole imprese con rapporti oltre Manica si è ridotto di un terzo. In base alle proiezioni ufficiali, a seguito della Brexit il Paese perderà circa il 4% del Pil. Le agenzie di rating Moody’s e S&P hanno declassato l’outlook del Regno Unito da “stabile” a “negativo”. Sì, è la Brexit, stupido.

Sunak è tutt’altro che un convinto europeista. L’asse del suo mondo è quello Silicon Valley-Londra-Mumbai, non Londra-Parigi-Berlino. Nel 2016 era schierato a favore della Brexit, ma se mai ne ha condiviso le illusioni ormai le ha perse. Lo ha dimostrato nella competizione con Truss per la guida del partito conservatore, Sunak è un realista che ha come priorità la solidità delle finanze pubbliche e la credibilità del mercato, come Margaret Thatcher. E il realismo impone che in circostanze economiche difficili si debbano abbassare le barriere per fare affari con il maggiore mercato unico a disposizione (l’Ue), non alzarle.

I banchi di prova immediati saranno due. Uno è noto: il protocollo sull’Irlanda del Nord. Si tratta di una questione ardua, ma lo stallo sull’Irlanda del Nord sta bloccando anche i progressi su altri fronti, come il rientro della Gran Bretagna nel programma Horizon per la cooperazione scientifica.

Il secondo test è sfuggito all’attenzione. Sotto il governo May nel diritto britannico sono state mantenute tutte le normative Ue esistenti, ove non sostituite da nuove norme nazionali. Nel fantastico mondo di Truss è stato presentato un disegno di legge che manderà al rogo le norme di origine Ue entro la fine del 2023. I dipartimenti dovranno fornire motivazioni per mantenere in vigore ciascuna delle oltre 2.400 norme, o dovranno sostituirle, una per una. Se Sunak intende concentrarsi, come dice, su quello che conta per l’economia, getterà alle ortiche questo folle provvedimento e ricomincerà da capo.

Per quanto competente e realista possa essere di suo, Sunak governerà con un partito diviso. Gli ideologi del brexitismo vi sono ancora presenti. Nel nome dell’unità dovrà inserirne alcuni nel suo gabinetto.

Se la democrazia britannica funzionasse come la maggior parte delle grandi democrazie occidentali, il Paese oggi andrebbe alle elezioni o a un “voto costruttivo di sfiducia” che porterebbe al potere altri partiti. Ma così non è. I conservatori hanno la maggioranza in Parlamento, se si andasse alle urne molti perderebbero la poltrona. Come si dice qui, i tacchini non votano per il Natale. Ma il dissenso nel partito è tale e la crisi è così grave che la Gran Bretagna potrebbe votare prima del 2024.

Alle elezioni, quando saranno, l’elettorato britannico quasi di sicuro come tradizione “caccerà a calci i bastardi” – intesi qui in senso apartitico – ed eleggerà un governo di centrosinistra moderato.

Il leader laburista Keir Starmer si mostra cauto sull’Europa, per timore di non riuscire a riconquistare gli elettori del Nord dell’Inghilterra, passati dalla parte di Johnson per “fare la Brexit”. Starmer ripete a pappagallo “facciamo funzionare la Brexit!” – uno slogan terribile secondo cui la Brexit ha l’unico difetto di non essere stata messa in condizione di funzionare a dovere. Visto il chiaro spostamento dell’opinione pubblica, lo slogan dovrebbe cambiare in “facciamo funzionare la Gran Bretagna” (nonostante la Brexit).

Nessuno sa cosa accadrà domani. Un giorno nella politica britannica ormai è un tempo lungo. Ma la direzione di marcia è chiara. La Gran Bretagna ha finalmente iniziato il viaggio di ritorno, lungo e doloroso, dalle illusioni del brexitismo.

(Traduzione di Emilia Benghi)

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