Pd, le divisioni sono chiare, si trascineranno fino a marzo

Andrea Carugati il Manifesto 29 ottobre 2022
Pd, tra mille dubbi Letta fissa la road map del congresso
Primarie il 12 marzo, prima un nuovo manifesto. Orlando: in gioco la sopravvivenza. Bonaccini: no a discussioni filosofiche sulla sinistra, sì ai rigassificatori

 

«Un grande partito, basta che non si parli di politica». La direzione del Pd di ieri riporta alla mente una mitica copertina di Cuore del febbraio 1991, che celebrava così la nascita del Pds. Dalla data del congresso all’identità del partito, dall’autonomia differenziata al rapporto col M5S, in oltre quattro ore di discussione le distanze tra i vari dirigenti sono apparse enormi. E per la prima volta dal 2007 si è avuta la netta sensazione che anche i big comincino a dubitare dell’utilità di un partito nato 15 anni afa, prima della lunga serie di crisi che hanno travolto l’occidente.

ALLA FINE, A FATICA, la direzione ha votato la proposta di mediazione di Letta, che prevede un bizantino percorso che condurrà alle primarie per il nuovo leader il 12 marzo. Passando per un nuovo manifesto dei valori che sarà scritto aprendo anche ai non iscritti che vogliano contribuire e coordinato da una commissione «di alto profilo». E partendo da una assemblea a metà novembre che darà il via al processo.

«Una sintesi equilibrata», spiega Letta, che ha confermato di voler essere« arbitro» del congresso ma che resterà «guida dell’opposizione» da qui a marzo. Ma che ha scontentato sia chi voleva una costituente più approfondita (Zanda, Orlando e Provenzano), sia Matteo Orfini e la corrente di Guerini che spingevano per fare più in fretta, avendo già deciso di sostenere Stefano Bonaccini per la leadership.

Il governatore emiliano ha invitato a «non restare sospesi al fermo immagine del 25 settembre» e non attardarsi in una «discussione filosofica sul senso della sinistra e della vita» mentre Meloni governa e i «lavoratori non stanno nei convegni». «L’identità non si definisce fuori dalla battaglia quotidiana», ha detto Bonaccini, ricordando che «il futuro del Pd non è scontato» e auspicando che i candidati alle prossime regionali siano «scelti da un nuovo gruppo dirigente».

ANCHE ORLANDO PARLA di «sopravvivenza» del Pd. E in effetti tutti i contendenti paiono d’accordo sulla doppia opa ostile – Calenda da destra e Conte da sinistra- che rischia di dissanguare il partito facendogli fare la fine dei socialisti francesi. Dubbi diffusi anche sul fatto che il percorso possa essere attrattivo per il popolo del centrosinistra. Tradotto: c’è il rischio che non venga nessuno. «Fuori da questa sala della fase costituente nessuno sembra essersi accorto», avverte la prodiana Sandra Zampa. «Per favore sorridiamo, se siamo così depressi non viene nessuno», sprona Matteo Ricci, uno dei possibili candidati.

Zingaretti invita a immergersi nelle piazze, nel conflitto sociale, per dimostrare che «l’alternativa siamo noi», Orfini chiede di interrompere il «rapporto tossico» col M5S, Boccia invece rimpiange quel campo largo che ha portato a vincere quasi tutte le amministrative e le regionali degli ultimi due anni. «Ben 4 segretari eletti con le primarie si sono dovuti dimettere, il problema è il partito», avverte Luigi Zanda. «Aveva ragione Macaluso, manca una chiara identità politica, se non troviamo un nerbo scegliere un nuovo leader sarà insufficiente».

LO SI È VISTO ANCHE IERI, con le discussioni sul Jobs Act, con Bonaccini che rivendicava i rigassificatori al via in Emilia e Toscana e Orlando a ricordare che le posizioni liberiste di Meloni, a partire dal ruolo dello Stato nel ridurre le diseguaglianze, trovano eco anche tra i dem. «Sulla redistribuzione siamo divisi», ha detto l’ex ministro del Lavoro, proponendo di tassare non solo gli extraprofitti sull’energia, ma anche nella farmaceutica, nella logistica e nel digitale. E invitando a mettere mano non solo al manifesto dei valori, ma anche alla «forma di un partito nato in epoca di bipartitismo e vocazione maggioritaria. Altrimenti invece di una costituente facciamo solo un restyling». Alla fine Orlando non vota la road map di Letta, così Paola De Micheli, Orfini e la sua area: 16 gli astenuti e un contrario.

LETTA PROVA A MOTIVARE la truppa, annuncia tre week-end di mobilitazione sulle controproposte alla legge di Bilancio, vede un «enorme spazio politico per l’ opposizione», su temi come lavoro, ambiente, imprese, rapporti con l’Ue, incalza Meloni su Covid e tetto al contante, definito «una sorta di liberi tutti». Tra chi interviene c’è chi, come Walter Verini lo invita a restare alla guida del partito («Un segretario lo abbiamo e sei tu»), consapevole forse che Letta ad oggi è l’unico che riesce ancora a tenere insieme tribù in lotta tra loro.

Lui affonda contro Renzi «stampella della maggioranza», accoglie gli inviti a rispondere «colpo su colpo» alle altre opposizioni, e a Conte manda a dire: «Chi fa il cavaliere solitario sappia che il governo si mette in difficoltà solo se le opposizioni sono unite». E spiega ai potenziali compagni di viaggio nel congresso: «La nostra promessa di partecipazione alla costruzione del nuovo Pd è sincera, chi verrà non sarà solo spettatore». Di qui l’idea di potersi iscrivere fino «all’ultimo momento», e cioè fino alla fine di febbraio per poter votare i due candidati che arriveranno alle primarie di marzo.

Scettici gli under 40 guidati dall’europarlamentare Brando Benifei, che oggi a Roma si riuniscono nell’assemblea «Coraggio Pd» e chiedono un netto «ricambio generazionale ai vertici». Critico Orfini: «Non possiamo pensare di ripetere nel congresso l’esperienza delle agorà, non ha funzionato». Il 22 gennaio nuova riunione dell’assemblea nazionale per approvare il manifesto dei valori. I candidati leader avranno tempo fino al 28 gennaio per palesarsi.

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