Il Pd diviso sul percorso, ma il rischio è non sciogliere i nodi

Daniela Preziosi Domani 29 ottobre 2022
 
Nel “congresso costituente” del Pd l’ala sinistra non è d’accordo con Letta
La riunione della direzione. Il gruppo dirigente approva la fase costituente proposta dal segretario uscente Enrico Letta, sedici astenuti Orlando non partecipa al voto. Le primarie saranno il 12 marzo 2023. Ma il percorso già da subito non convince tutti

 

Non è precisamente la data del congresso il vero oggetto della discussione — e del dissenso — nel gruppo dirigente del Pd che ieri si è riunito nella direzione. I gazebo si apriranno il 12 marzo 2023, con buona pace più o meno di tutti. La questione vera è la possibilità di «sciogliere i nodi», come dicono in molti: tradotto dal politichese, dentro il Pd esistono linee politiche evidentemente diverse, e una discussione troppo serrata più che inefficace rischia di tagliare con l’accetta le questioni, dunque di essere pericolosamente esposta se non a scissioni, a nuove fuoriuscite. Così alla fine della discussione la “mediazione” del segretario Enrico Letta viene approvata. Chiede un «percorso costituente per il nuovo Pd» sconfitto alle elezioni e finito incastrato dalla tenaglia di M5s e terzo polo che lo attaccano da sinistra e da destra. Un percorso che il segretario ha fatto iniziare davanti alla lapide che ricorda il luogo in cui fu rapito il socialista Giacomo Matteotti, il primo martire della dittatura. Il Pd in piena crisi deve decidere il suo futuro ma nel frattempo fare l’opposizione al primo governo guidato dalla destra post fascista. Per i prossimi mesi il segretario uscente sarà dunque «arbitro nel congresso ma anche guida dell’opposizione». E per la prima volta si conta un drappello di astenuti, sedici, e un voto contrariò, quasi tutti della sinistra interna. La componente dei Giovani Turchi di Matteo Orfini non partecipa al voto e anche l’ex ministro Andrea Orlando.

Primarie l’ 12 marzo Il dissenso, sorvegliato ma reale, è sul come fare. Per arrivare alla ga-zebata, il percorso delle assise sarà un po’ diverso da quelli precedenti: secondo la sinistra troppo poco per essere considerato davvero «costituente». Entro il 7 novembre sarà avviato con un «Appello alla partecipazione», entro il 18 l’Assemblea nazionale approverà le deroghe allo statuto che consentiranno al Pd di far votare i nuovi iscritti. Entro il 22 gennaio il nuovo Manifesto dei valori, entro 1128 arriveranno le candidature. Ad Andrea Orlando ed altri che indicano le contraddizioni di questo cammino, Letta risponde con la richiesta di un voto di fiducia. La sua proposta è, dice, «una buona sintesi» fra innovazione e rispetto delle regole: un segretario uscente del resto non potrebbe stravolgerle. Ma la novità più forte — appunto l’apertura del Pd anche ai «nuovi iscritti entro la data dei congressi locali»; «gli iscritti ai partiti e movimenti politici, alle associazioni e ai movimenti civici che con deliberazione dei propri organismi dirigenti aderiscano al processo costituente»; e ai cittadini che sottoscrivano l’appello alla partecipazione — solleva dubbi: «Se si chiamano persone che hanno votato il Pd, ma anche che non lo hanno votato e guardano con interesse al nuovo Pd, bisogna anche consentirgli di discutere su quali sono le regole organizzative che definiranno la forma partito», dice Orlando, se no «non stiamo facendo una vera costituente, non stiamo costruendo un nuovo partito, ma provando a fare un restyling di quello che c’è». «La crisi del Pd è così grave», per l’ex senatore Luigi Zanda, che serve «una rigenerazione», ma è difficile «che entro l’inverno si possa completare un congresso costituente», serve insomma il tempo per «una vera conferenza nazionale che approfondisca il senso della nostra presenza politica». Proposta ripresa da Sandra Zampa (chiede «un gruppo di saggi che apra tavoli di confronto») e da Gianni Cuperlo («O decidiamo che una rifondazione va pensata e gestita come si deve, a partire dai tempi, dal coinvolgimento dei tanti disillusi e con regole che alla fine del percorso garantisca solo a chi vi aderisce di scegliere la nuova leadership»). Serve «una grande assemblea aperta» anche per Peppe Provenzano, il vicesegretario. A spingere oltre però non sono pochi. Marco Miccoli, zingarettiano chiede un chiarimento «anche duro». Cita il «balbettio» a cui il Pd è costretto per via della sua irresolutezza. L’esempio di scuola è il «jobs act», legge del governo Renzi oggi sconfessata da Letta: «O facciamo atti concreti o facciamo finta di piangere quando muore un rider che da morto viene licenziato da un algoritmo». «Non ci possono essere due partiti nel Pd», avverte anche Provenzano.

La rivalità con il M5s Prova a mediare la franceschiniana Marina Sereni, «l’opposizione ci aiuterà a far maturare le nostre posizioni. Restiamo insieme anche se abbiamo sensibilità diverse». Sullo sfondo della discussione, ma neanche tanto, c’è la «tenaglia» in cui è stretto il Pd all’opposizione. E le alleanze, tema da affrontare con urgenza in vista delle prossime regionali: le prime ad arrivare saranno nel Lazio, dove la possibilità del matrimonio con M5s è sempre più fragile. Un rapporto mal posto, secondo Orfini: «Un pezzo del gruppo dirigente ha un rapporto tossico con i Cinque stelle». Fra gli ultimi a intervenire è il presidente della Regione EmiliaRomagna Stefano Bonaccini, possibile candidato, e nel caso il favorito. «Non è che la gente non viene perché abbiamo chiuso le porte, ma perché spesso quello di cui discutiamo non rileva i bisogni e le aspettative delle persone. Se non ancoriamo a tutto questo l’attuale fase di costruzione del nuovo gruppo dirigente, dubito che possa produrre consenso e partecipazione».

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