Marcelo Barros: «Fondamentalisti di ogni segno contro un Brasile laico e pluralista»

Claudia Fanti il Manifesto 30 ottobre 2022
Marcelo Barros: «Fondamentalisti di ogni segno contro un Brasile laico e pluralista»
Il teologo della liberazione attacca «il carattere colonialista delle istituzioni religiose e il loro attaccamento ossessivo ai sistemi autoritari». Non solo integralisti pentecostali, anche molti cattolici con Bolsonaro. Puntano a stabilire in Brasile un nuovo regime di cristianità.

 

Il presidente uscente è solo uno strumento di questa lotta». Ma i vescovi prendono posizione contro la destra e «l’economia che uccide»

 

Per la popolazione che ha a cuore la democrazia, l’ambiente e i diritti – dei poveri, dei lavoratori, degli indigeni, degli afrodiscendenti – quella di oggi è l’elezione più importante della storia del paese dalla fine della dittatura. E l’esito, malgrado i sondaggi continuino a dare per favorito Lula, è ancora piuttosto incerto. In questo quadro, un gruppo di vescovi, che si firmano semplicemente come “vescovi del dialogo per il Regno”, ha lanciato un appello contro la rielezione di Bolsonaro, invitando il popolo brasiliano a prendere posizione tra due opposti progetti di paese – «uno democratico e l’altro autoritario, uno impegnato nella difesa della vita a partire dagli impoveriti e l’altro schierato a favore di un’economia che uccide» – e denunciando la manipolazione di Dio a fini elettorali da parte del presidente e dei suoi seguaci. E proprio dell’importanza del fattore religioso, nel contesto di una campagna mai così tesa e violenta, abbiamo parlato con il monaco benedettino e teologo della liberazione Marcelo Barros, esponente di punta della teologia del pluralismo religioso.

Come si spiega il peso assunto in queste elezioni dalla questione religiosa?

Sta venendo alla luce nella maniera più chiara ciò che ha sempre segnato la nostra storia dai tempi della conquista: il carattere colonialista delle istituzioni religiose e il loro attaccamento ossessivo ai sistemi autoritari. Già negli anni ’60, la maggioranza delle autorità ecclesiastiche ha appoggiato i regimi militari contro il fantasma del comunismo. Ai nostri giorni, non pochi sacerdoti e pastori usano gli stessi argomenti per sostenere Bolsonaro. Niente di nuovo sotto il sole.

Con la teologia della liberazione e la nascita delle comunità ecclesiali di base è stato proposto un altro modello di Chiesa, ma è stato soffocato dai pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. E ora raccogliamo i frutti di ciò che il Vaticano ha seminato. La novità di queste elezioni è che ora c’è una gara tra i cattolici e gli evangelici pentecostali – che sono aumentati di numero e hanno acquisito una visibilità maggiore – per stabilire in Brasile un nuovo regime di cristianità. Bolsonaro è solo uno strumento di questa lotta.

Attualmente, tra i dieci brasiliani più ricchi ci sono due pastori pentecostali: Edir Macedo, vescovo-proprietario della Chiesa Universale del Regno di Dio e Silas Malafaia, leader di un ramo dell’Assemblea di Dio. Ma tra i tanti ricchi ci sono anche alcuni sacerdoti cantanti che si fanno pagare più di centomila reais per ogni esibizione. È chiaro per chi voteranno. Per tutti loro, l’unica cosa che conta è se il candidato sarà di utilità alla Chiesa e se ne sosterrà i programmi. Il resto non ha importanza.

Di fronte al fiume inarrestabile di fake news, Lula si è addirittura sentito indotto a scrivere una lettera al popolo evangelico per garantire il suo pieno rispetto per tutte le religioni…

Nella sua lettera, Lula afferma, tra l’altro, che il Brasile è un paese laico e plurale. Ma i fondamentalisti di qualsiasi segno non vogliono sentir parlare né di laicità né di pluralismo. All’interno di molte comunità evangeliche e pentecostali l’atmosfera è così tesa e le pressioni sono talmente forti che molte persone che pensano di votare Lula preferiscono non dirlo. Sono voti quasi clandestini. Ma non va meglio neppure in non poche parrocchie e gruppi cattolici.

I bolsonaristi che hanno creato incidenti al santuario di Aparecida e che sulle reti sociali attaccano sacerdoti e vescovi non sono evangelici o pentecostali. Sono cattolici. Negli ultimi anni in Brasile si sono consolidati gruppi come il Centro Don Bosco che aggrediscono quotidianamente qualsiasi persona o iniziativa più aperta o legata a papa Francesco, alla Conferenza episcopale e alle pastorali sociali. Il clero e la gerarchia cattolica non sono preparati ad affrontare questo dissenso. Spesso, in risposta a tali attacchi, essi si pongono sullo stesso piano quanto a dogmatismo e intolleranza religiosa, rivelando una visione della cristianità meno chiusa ma ugualmente autoritaria, sulla base di argomenti come «Chi critica il papa dovrebbe lasciare la Chiesa» o «Se non accetti il Vaticano II, non sei cattolico». Il pluralismo culturale e religioso è qualcosa di sconosciuto sia ai bolsonaristi che a molti dei nostri… In Brasile, quasi ogni giorno, viene attaccata qualche comunità religiosa afro-discendente o qualche tempio del Candomblé o dell’Umbanda. I responsabili sono cristiani che praticano il razzismo religioso e per di più nel nome di Gesù.

In effetti, tra i cattolici, ben la metà ha votato 4 anni fa per Bolsonaro. E poco meno del 40% voterà di nuovo per lui. Come è possibile che ciò avvenga in un paese in cui la teologia della liberazione e le Comunità ecclesiali di base hanno avuto tanta importanza?

La demolizione delle istanze più aperte e progressiste operata dal Vaticano a partire dagli anni ’80 è stata molto intensa. D’altro lato, in tutta l’America Latina, le realtà legate alla teologia della liberazione hanno cercato di inserirsi nella Chiesa così com’era, diventando in tal modo dipendenti dai cambiamenti all’interno della gerarchia ecclesiastica. Si diceva allora che, mentre in Europa le Comunità di base portavano avanti la loro critica nei confronti dell’istituzione gerarchica in quanto potere sacro, in America Latina lottavano, sì, contro il sistema sociale e politico, ma non contro la gerarchia ecclesiastica. Ciò si spiega con il fatto che le comunità potevano contare su grandi figure di vescovi profetici. Ma quando questi sono scomparsi, le comunità sono state ignorate o addirittura combattute. E non erano sufficientemente educate alla trasgressione evangelica. Così, dal punto di vista teologico, il superamento delle strutture conservatrici e autoritarie della vecchia cristianità è ancora da venire. E finché resteranno tali strutture, non sarà possibile vivere la fede come spiritualità di liberazione. Questo spiega perché oggi in Brasile ci sono sacerdoti e vescovi che fanno propaganda a favore di Bolsonaro contro il comunismo e che negano la comunione a un fedele che, per caso, porta sulla camicia una spilla rossa del Pt.

Il fattore ambientale, di fronte alla devastazione degli ecosistemi del paese da parte di Bolsonaro, quanto incide realmente sul voto?

In queste elezioni, la questione ecologica ha un peso elettorale appena per una piccola minoranza di brasiliani. La stragrande maggioranza delle persone non si è ancora resa conto della gravità della situazione.
Non so quanti sacerdoti e vescovi abbiano realmente preso sul serio la Laudato si’. Molte diocesi promuovono la pastorale ambientale, ma questa rimane del tutto marginale rispetto alla pastorale diocesana nel suo complesso. L’immensa popolazione povera ha un accesso limitato alla discussione dei problemi ambientali. E i grandi mezzi di comunicazione non aiutano.

Se Lula vincerà, troverà un paese fortemente polarizzato. Sarà costretto a spostarsi al centro?

Dal momento in cui Lula ha lanciato la sua candidatura, ha assunto una linea che si potrebbe definire di centro. La sua posizione, del resto, si è sempre ispirata al neosviluppismo, orientato essenzialmente a elevare le condizioni di vita del popolo ma evitando qualsiasi conflitto con le oligarchie e dunque incapace di dare risposta ai problemi strutturali del paese. La popolazione più povera impegnata ogni giorno nella lotta per la sopravvivenza fa fatica a pensare che votare per questo o quel candidato possa fare la differenza. La moltitudine di persone che soffrono la fame, gettate sui marciapiedi delle città o trattate come schiavi nelle campagne, sono distanti dalle discussioni politiche. La maggior parte di loro non vota nemmeno.

Il Brasile che, in caso di vittoria, Lula sarebbe chiamato a governare è più conservatore, più diseguale, più elitario e più diviso di quello di fronte a cui si trovava quando, per la prima volta, nel gennaio 2003, aveva assunto la presidenza. La nostra speranza, in questo quadro, è che Lula vinca, ottenga un mandato che gli permetta di revocare i decreti e le misure adottate dai governi di Temer e Bolsonaro contro i lavoratori, i pensionati, gli indigeni, ecc. e avvii la discussione su una riforma politica che ci permetta di creare un nuovo patto sociale.

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