I cittadini chiedono che le armi tacciano. Meritano ascolto e rispetto

Antonio Spadaro* La Stampa 6 novembre 2022 
Marcia per la pace: i cittadini chiedono che le armi tacciano. Meritano ascolto e rispetto
Occorre riconciliare potere e pace come dice il Papa

Sono in Bahrein, dove accompagno Francesco nel suo viaggio apostolico. Il Papa ha deciso di visitare un piccolo Paese dove c’è una piccola Chiesa che è un “mosaico” di lingue, popoli, provenienze, culture. Ma il Paese stesso, in generale, è composto da gente per lo più immigrata. Il Papa ha fatto appello alla Costituzione perché tutti sono chiamati a lavorare insieme per il bene comune come cittadini. Essere cittadini è la base per costruire la pace, componendo le differenze per un progetto condiviso. Le tensioni ci sono: la maggioranza sciita è governata da una monarchia sunnita. Ma proprio da qui si eleva il grido di pace e riconciliazione. Il Papa e l’imam di Al-Azhar hanno insieme invocato un inedito ma indispensabile dialogo intra-islamico. Ci vuole fiducia e immaginazione, ma oggi più che mai queste sono necessarie per pensare il futuro dell’umanità.

Da questo luogo così composito Francesco sta guardando il mondo e ci aiuta a guardarlo con saggezza. E che cosa vede? Mi sembra che veda emergere «il lato peggiore dell’uomo», la «realtà mostruosa e insensata della guerra, che ovunque semina distruzione e sradica speranza». Sappiamo che Francesco ama le immagini per dire il suo pensiero. Qui l’ho ascoltato mentre parlava di due mari. Da una parte il «mare calmo e dolce della convivenza comune», dall’altra quello «agitato da venti di guerra, con le sue onde distruttrici sempre più tumultuose, che rischiano di travolgere tutti». Non c’è alcun bisogno di spiegare il senso del contrasto tra queste acque.

Ma poi Francesco è stato preciso, chirurgico, nell’analisi. Alla luce delle contrapposizioni che animano la politica internazionale in questo tempo, il giudizio si è fatto impietoso: «Pochi potenti si concentrano in una lotta risoluta per interessi di parte, riesumando linguaggi obsoleti, ridisegnando zone d’influenza e blocchi contrapposti», ha detto. In due parole ha scattato l’istantanea delle dinamiche della politica internazionale dei nostri giorni.

Francesco non è un politico: è un pastore. Chiaro che ha una visione del mondo. L’aveva spiegata poco tempo fa: si continua a governare il mondo come uno «scacchiere», dove i potenti studiano le mosse per estendere il predominio a danno degli altri. La sua idea sulla guerra basata sui «nuovi imperialismi» è stata sempre chiara. L’ha ribadita qui in Bahrein. Francesco ha prospettato «amare conseguenze» se non si «smette di distinguere in modo manicheo chi è buono e chi cattivo, se non ci si sforza di capirsi e di collaborare per il bene di tutti». Sono sempre parole sue. Precise.

Ma da questo deserto della penisola arabica – sulle strategiche vie marittime del petrolio – che si affaccia sull’Iran, ha dato un giudizio severissimo: «Sembra di assistere a uno scenario drammaticamente infantile: nel giardino dell’umanità, anziché curare l’insieme, si gioca con il fuoco, con missili e bombe, con armi che provocano pianto e morte, ricoprendo la casa comune di cenere e odio». Si gioca alla guerra, come se le bombe fossero bambole. Al contrario, ha tuonato, dobbiamo imparare «a guardare le crisi, i problemi, le guerre, con gli occhi dei bambini». Una cosa è avere gli occhi dei bambini, altra è essere infantili. No, non è ingenuo buonismo, ma sapienza, perché solo pensando ai bambini «il progresso si specchierà nell’innocenza anziché nel profitto, e contribuirà a costruire un futuro a misura d’uomo», ha detto.

Questo è il punto: abbiamo perso il futuro! Non pensiamo più possibile il futuro, non abbiamo più gli occhi di chi deve crescere in questo modo fracassato. Francesco, da pastore, reclama il diritto di poter usare la parola pace, invocarla, desiderarla. Si mette dalla parte della gente e reclama il loro diritto alla pace. E allora la gente fa bene a gridare pace, ad articolare per le strade questo grido, spesso zittito dalla retorica bellica. Si scende in piazza perché l’invocazione della pace non può essere soppressa.

Il grido non conosce formule magiche per uscire dai conflitti, aveva detto Francesco al recente incontro promosso da sant’Egidio, ma ugualmente ha «il diritto sacrosanto» di chiedere pace e merita ascolto e rispetto.

Celebrando la messa, Francesco ha ricordato che il profeta Isaia immaginava il Messia. E di lui diceva che «grande sarà il suo potere e la pace non avrà fine». Francesco ha commentato amaramente: di questi tempi «sembra una contraddizione». Perché? Perché nella scena di questo mondo «più si ricerca il potere, più la pace è minacciata». Potere si declina con «visioni dispotiche, imperialiste, nazionaliste e populiste». E questo è, dunque, un secondo punto chiave dei discorsi di questi giorni: riconciliare potere e pace.

Per questo è più che mai importante oggi scendere per le piazze e per le strade gridando «pace»: perché la gente possa dire di voler credere ancora nel futuro, e perché possa esprimere il desiderio di un potere che sia sinonimo di pace. E dalle strade desertiche del Bahrein, da questo angolo di mondo, Francesco oggi sta gridando «pace!».

* Direttore de La civiltà cattolica

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