Regeni e Zaki, i casi declassati a problemi secondari

Carlo Bonini La Repubblica 8 novembre 2022
Meloni e i casi Regeni e Zaki
Abdicare alla sovranità

 

Diciamolo pure con brutale franchezza. Da ieri, nei rapporti tra Italia ed Egitto, il processo ai responsabili del sequestro, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni, nonché il destino di Patrick Zaki, cittadino egiziano già illegalmente e strumentalmente detenuto dal regime del Cairo, degradano al rango politico e diplomatico di subordinate. Peggio, a petizione di principio neppure troppo convinta. Lo documentano la stretta di mano a favore di telecamere e l’incontro di un’ora con cui, a Sharm el-Sheikh, Giorgia Meloni ha garantito al presidente egiziano Al Sisi una “stagione di disgelo” nelle relazioni tra i due Paesi. Un tempo “nuovo” dove, anche solo a voler stare all’ordine sintattico del comunicato a chiosa del vertice a due, “il tema del rispetto dei diritti umani” e “la forte attenzione dell’Italia sui casi Regeni e Zaki” arrivano buoni ultimi. Dopo “l’approvvigionamento energetico”, le “fonti rinnovabili”, “la crisi climatica”, l’immigrazione”.

La cosa, probabilmente, non dovrebbe stupire. Se non altro pensando al modo erratico, a tratti cinico, con cui, dal 25 gennaio del 2016 (il giorno in cui Regeni scomparve per essere ritrovato cadavere nove giorni dopo), con poche e luminose eccezioni, la classe politica del nostro Paese e la sua diplomazia, si sono misurate senza successo, e con segnali spesso contraddittori, con la sistematica operazione di sviamento, manipolazione e negazione della verità orchestrata da Al Sisi, dai suoi apparati di sicurezza e dalla magistratura egiziana. Si potrebbe insomma dire che, buon ultima, Giorgia Meloni provvede oggi ad iscriversi all’affollato partito di quanti ritengono che il prezzo di una solida relazione sul piano economico e strategico con l’Egitto possa ben valere la vita di due ragazzi, la violazione dei loro diritti umani. E nel farlo cancelli con una alzata di spalle i passi in avanti — anche solo a voler restare sul piano simbolico — fatti nella legislatura appena conclusa con la decisione di uno dei due rami del Parlamento di interrompere le relazioni istituzionali con l’Egitto, con il lavoro della commissione di inchiesta su Regeni e della allora ministra di Giustizia Cartabia per uscire dal vicolo cieco in cui è stato cacciato il processo ai responsabili dell’omicidio Regeni dall’ostruzionismo egiziano verso la possibilità di celebrare un giudizio in contumacia ai suoi responsabili.

In realtà, e a ben vedere, nella scelta di Meloni c’è della coerenza. Nell’aprile dello scorso anno, l’allora leader di Fratelli d’Italia scelse di far astenere i suoi parlamentari nel voto alla mozione del nostro Parlamento che impegnava il governo Draghi a riconoscere la cittadinanza italiana a Patrick Zaki, all’epoca ancora detenuto. E lo fece con queste parole: «Noi siamo molto solidali con la vicenda, ma, nonostante tutto, ai fini della soluzione della vicenda, io non sono convinta che una ingerenza delParlamento italiano lo aiuti. In queste questioni è la geopolitica a dover lavorare perché le questioni diplomatiche sono molto delicate. Quindi, bisogna fare attenzione a come ci si muove». Del resto, in quello stesso 2021, Guido Crosetto, oggi ministro della Difesa, in un tweet dedicato alla vicenda, istituiva una singolare equivalenza tra il rispetto dei diritti umani in Italia e quello coltivato in Egitto. Così: “Ai moltissimi italiani che da mesi combattono per i diritti umani in Egitto vorrei dare un’informazione: sapete quanti cittadini egiziani sono morti nelle carceri italiane nell’ultimo anno? Dodici.

Dodici cittadini egiziani sono morti nelle mani dello Stato italiano. In Italia”. Appena cinque anni prima, era l’aprile del 2016, i consiglieri comunali di Fratelli d’Italia a Torino, insieme a quelli della Lega, abbandonavano l’aula consiliare per protestare contro un documento che prendeva posizione contro il regime del Cairo sulla morte di Regeni. Anche in quel caso con argomenti di cui ciascuno può agevolmente valutare non solo il pregio dialettico, ma il grado di separazione dalla realtà. Questi: “Ci sono molti elementi della vicenda da approfondire.
Regeni è davvero vittima del governo egiziano? Era legato a un’agenzia di intelligence inglese? Non si può chiedere verità prima dell’approfondimento dei fatti”.

E tuttavia, anche se con queste premesse, non ci si poteva aspettare nulla di più o di diverso, c’è qualcosa di più in quanto accaduto a Sharm el-Sheikh. Lo svelamento di una coscienza tanto biforcuta quanto ipocrita di Giorgia Meloni e del governo su un tema dirimente come quello sollevato dai casi Regeni, innanzitutto, e Zaki. Che suona così: con quale coraggio si può ripetere un giorno sì e l’altro pure alla “nazione”, che “è finita la pacchia” perché l’Italia è pronta a “riprendersi il posto e il rispetto che merita in Europa e nel mondo”, che “l’inviolabilità dei confini è sacra” e dunque una nave che trasporta migranti può essere agevolmente scrutinata sulla base di chi a bordo è “fragile” e chi “carico residuale”, se la sovranità nazionale diventa non un principio da difendere, ma un feticcio ideologico da agitare? Detta altrimenti: a quale categoria politica e istituzionale Giorgia Meloni iscrive la pervicace umiliazione che l’Egitto ha imposto all’Italia sul caso Regeni? Cosa è, se non una flagrante e solare violazione della nostra sovranità, l’ostruzionismo di un Paese che impedisce di processare all’interno dei nostri confini chi è responsabile dell’omicidio di un nostro cittadino?

Rispondere non dovrebbe essere difficile. A meno di non continuare a confondere il sovranismo liberticida e a buon mercato con l’abdicazione a una difesa democratica e coerente della sovranità di un Paese. Il nostro. Regeni e Zaki sono l’occasione.

 

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