Senza più Trump, il Trumpismo non è cosi male…

Lucia Annunziata La Stampa 10 novembre 2022
Spazzati via i demoni trumpiani, così finisce l’era plebiscitaria
I candidati che si facevano selfie durante l’assalto a Capitol Hill sono stati sconfitti. Repubblicani e dem ridiscutono le loro identità: la democrazia americana sa curarsi

 

La vera notizia uscita dalle urne del voto di Midterm in Usa, è che la democrazia americana sta in buona salute. Uno dei due partiti del paese, il Gop, in profonda crisi di identità e unità da almeno sette anni, ha saputo prendere nelle sue mani il problema e avviare un percorso di risanamento. E che problema!

Stiamo parlando di Donald Trump, un uomo che da sette anni ha occupato il partito Repubblicano, lo ha trasformato in una sua personale accademia di riscrittura della storia d’America e del mondo, in chiave complottista, mentre tentava di sottoporre allo stesso trattamento il resto del mondo – la povera Europa in primissima battuta. Trump perse le elezioni due anni fa senza mai accettarne il verdetto, ed ha trascorso il tempo da allora a imbastire vendette, battaglie e minacce nel tentare di cambiare ulteriormente quel che restava del Gop per trasformarlo definitivamente nel suo ticket to ride per un ritorno alla Casa Bianca.

Uomo potentissimo, di parole sprezzanti, che ha usato in questi anni il suo potere, la sua personalità, e la sua audacia, per tentare fino all’ultimo la trasformazione del Grand old party, partito con una storia profondamente americana, nello strumento di un delegittimazione delle istituzioni, con l’assalto il 6 gennaio del 2021 ai luoghi simbolo del potere Usa, come segno del revanchismo populista, del ristabilirsi di un diverso equilibrio fra elite e popolo.

Insomma, tutto quello che già sapete. Quello che non è stato chiaro almeno finora, anche se i segni c’erano tutti, è che il Gop rimasto per anni in balia del suo nuovo presidente e leader, ha cominciato a tessere la tela di una contromossa altrettanto brutale, la espulsione del suo nuovo padrone. E ieri notte dalle urne è uscita una batosta nei confronti di The Donald che, secondo le stesse prime valutazioni a caldo del mondo conservatore, potrebbe essere la conclusione della sua carriera – vedasi le prime pagine di Washington Times e National Review.

Il peso della battuta d’arresto a Trump è misurabile. Tutti i candidati che ha fortemente voluto come segno della “trumpizzazione” del Gop, un vero e proprio piano di “sostituzione politica” della identità del partito, sono stati sconfitti.

Le storie di questi uomini che hanno perso sono per certi versi perfettamente esemplari, e ciascuna è avvenuta su territorio di stati contesi fra Rossi (R) e Blu (D).

In Pennsylvania, Stato da sempre democratico ma da anni sottoposto a tremori di passaggi di colore (per la prima volta Penn tradì i colori dem per votare George Bush dopo 9/11), anche stavolta è stato nella lista dei contendibili. Trump ha scommesso su questa fragilità lanciando Doug Mastriano, veterano dell’Iraq e dell’Afghanistan. Lo stesso Mastriano un ex militare che il 6 gennaio 2021 a Washington si faceva selfie con gli uomini che abbattevano barriere e porte per entrare al Congresso; lo stesso Mastriano che come centro della sua campagna elettorale aveva promesso di «ripulire la Pennsylvania dal crimine» è stato sconfitto dal dem Josh Shapiro che ha vinto con 13 punti di vantaggio.

Sempre in Pennsylvania, dove il voto finale è così incerto da dover ricorrere a un secondo giro elettorale, ha perso malamente in candidato Mehmed Oz, dottore divo televisivo, e ha vinto il dem John Fetterman, che per ironia della sorte, solo pochi mesi fa ha avuto un ictus e non parla e non sente bene. In New Hamphire ha perso a favore della dem governatrice uscente, il famoso trumpista Donald Bolduq, ex militare convinto che il Covid-19 fosse stato inventato da Bill Gates per mettere microchip a tutto il mondo. E in Maryland ha perso il trumpista Dan Cox, a favore di un democratico, Wes Moore.

Ma le sconfitte più pubbliche e più dolorose per l’ex Presidente Trump vengono dal suo campo ancora più stretto. Ad esempio nello stato chiave della Georgia ha vinto di buona misura Brian Kemp, il governatore repubblicano che Trump raggiunse dopo le elezioni chiudendogli di aiutarlo a sostenere con voti trovati in maniera “sportiva”, diciamo così, le prove della frode della vittoria dem di Biden. Kemp gli disse no si è preso negli anni un mare di insulti ma è sopravvissuto ed ha vinto molto bene. Infine, ciliegina sulla torta per Trump, c’è la vera vittoria contro di lui: il governatore della Florida Ron DeSantis, che ha vinto l’ultimo mandato di stretto margine, e stavolta, nonostante e forse grazie a tutti gli insulti di Trump, ha vinto con una maggioranza schiacciante. Ieri sera era già su tutti i giornali e le Tv, incluso i media di destra, indicato come il possibile nuovo candidato presidente per il 2004.

Ovviamente è troppo presto per dire qualcosa del genere ma è significativo.

DeSantis, che sarebbe dopo Cuomo il secondo italo-americano a poter coltivare il sogno della Presidenza, è una figura molto interessante per noi italiani. Molto italiano fisicamente, è un signore di ottima educazione (Harvard e Yale) e di spirito notevole – sua una delle trovate più efficaci della campagna elettorale appena chiusa: alcune settimane fa prese qualche centinaia di immigrati clandestini arrivati in Florida, li mise su un aereo e li mandò sull’isola di Martha’s Vineyard, diciamo la Capalbio (di una volta) italiana, dove anche Obama ha comprato un villone per eterne estati sul campo da golf. Gli immigrati vennero subito accolti, sgombrati sulla terra ferma, e allocati in una base militare. Colpo di scena superpopulista ma molto efficace. DeSantis è riuscito in otto anni da governatore della Florida a non incontrare mai Trump che pure vive lì, e nemmeno a incrociarlo in una foto. The Donald ce l’ha con lui moltissimo, al punto da minacciarlo di “qualcosa” nel caso decidesse di correre.

Insomma, DeSantis da solo, che ieri e oggi domina i media, è bastato a scalfire il mito.

Cosa succederà dopo questo è assolutamente presto per dirlo. DeSantis è molto giovane, 44 anni, e assolutamente è presto per predirne il futuro, ma il fatto rilevante su di lui è che è figlio di un movimento dentro il partito Repubblicano che porta a liberarsi di Trump, e che è cominciato con i più stretti collaboratori dell’ex Presidente, il Vicepresidente Mike Pence e l’ex Segretario do Stato Mike Pompeo.

Una lotta politica senza esclusione di colpi, ma giocata in trasparenza e secondo le vie istituzionali – un’ aperta battaglia politica dentro il partito e intorno alle urne. Questo è il valore di questo percorso.

È finito Trump? Di sicuro è oggi un politico passato dall’essere il candidato senza il quale non si vince, al candidato con il quale non si vince. Ma, e questo è il punto, sono tutti segnali di un partito che come discriminante traccia le istituzioni. I Repubblicani non sono diventati “democratici”, hanno semplicemente rimesso in atto le procedure che fanno sopravvivere le istituzioni. Del resto l’ampia possibilità data alla sua storia dal bipolarismo americano ha sempre provato essere nei momenti più duri ( e oggi il momento è durissimo) l’ancora cui aggrapparsi.

Lo stesso voto che non ha condannato Biden alla sconfitta più brutale dà segnali di una ripresa di “moderatismo” presso gli elettori Usa. Non abbiamo assistito al solito rito dello scannarsi in pubblico, non sono state elezioni da sangue e arena.

Certo, anche i dem da oggi dovranno discutere della loro identità. Ma forse, e dico solo forse, la deriva plebiscitaria, tossica della politica in Usa è durata troppo.

Forse è un indizio, questo, di un reset del ciclo elettorale. O forse no. Ma non è male illudersi.

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