Il Pd non deve cercare un capo ma un’identità, altrimenti è morto

Michele Prospero il Riformista 11 Novembre 2022
Il Pd non deve cercare un capo ma un’identità, altrimenti è morto
Il governo è in grave affanno. Nelle cancellerie tutti ricoprono di ridicolo la levatura di statista rivendicata da Giorgia Meloni. L’esecutivo della “fuoriclasse” in pochi giorni è stato giudicato nelle sue effettive dimensioni.

 

Dopo aver mostrato il volto violento dello Stato per difendere i confini e spezzare le reni ai naufraghi, il governo del mare di Giorgia e Giorgetti è umiliato e costretto ad obbedire ai “bizzarri” psicologi di Catania.

Proprio quando i muscoli della patriota-pediatra si sono sgonfiati nel fronte del porto dinanzi alla sovranità dei certificati medici, il Pd è però apparso in letargo, dato che si sente come in trappola. Il voto lo ha graffiato scaraventandolo in un vuoto da cui, sospeso tra due fuochi poco amici, non sa come uscire, sviluppando un pericoloso istinto di autodistruzione. Al male di vivere, seguito alla sconfitta di settembre, si è aggiunta la paura di dileguarsi. Cresce infatti il timore dinanzi alla volontà acquisitiva dei mancati alleati, entrambi intenzionati a conquistare ciò che rimane delle doti di un partito acefalo. La maledizione delle alleanze si abbatte sul Nazareno: prima di settembre, la rinuncia ad accordi tattici per i collegi uninominali ha costretto il Pd a partecipare ad una contesa solitaria persa in anticipo perché giocata dalla destra sul traino ben più efficace dell’effetto maggioritario; dopo il voto, l’ossessione di ricostruire una coalizione spendibile per le regionali lo sottopone ai ricatti paralleli di due partner che intendono occuparne lo spazio politico (poco) presidiato.

Il congresso infinito accentua la percezione della scarsa incisività di un’organizzazione senza guida che gestisce in una condizione di minorità e immobilismo una fase di emergenza. Con un segretario dimissionario, che rimane però in carica per altri sei mesi con una capacità di leadership impercettibile, cresce la sensazione di un partito alla deriva. La sconfitta annunciata e la risposta balbettante al declino elettorale non arrestano la lunga emorragia dei consensi. Anzi, gli appetiti dei rivali partiti di opposizione diventano per questo ancora più insaziabili. Il ventre molle del Pd è infilzato senza pietà da richieste impossibili, ricatti, veti, concepiti abilmente per soddisfare la naturale fame di potenza dei competitori. Premiato da un cospicuo esercito di voto di opinione proveniente dalla sinistra, Conte utilizza la forza ricevuta non certo per insediarsi stabilmente nel campo progressista e ricucire un rapporto strappato di proposito a luglio. Dopo aver rotto l’accordo in Sicilia regalando l’isola a Schifani, non esita a consegnare alla destra anche il Lazio in nome del termovalorizzatore romano assurto a vero male epocale. Per Conte una corsa solitaria, anche in caduta libera, ha poche conseguenze negative per via della scarsa presenza territoriale del Movimento che condona ogni erosione nelle preferenze. Il suo non-partito può anche perdere nelle regioni (d’altronde non si vota sempre per decidere il destino del reddito di cittadinanza) senza ricevere grossi contraccolpi nella leadership.

La sintonia gialloverde poggiava, all’epoca del “governo del cambiamento”, su una convergenza culturale assai profonda che la sinistra, per calcoli ravvicinati, ha preferito cancellare con una generosa amnistia delle colpe oramai scolorite nelle pieghe della memoria. Più complicato è tamponare l’insidia, minacciosa per la stessa sopravvivenza del partito, che viene dall’energica azione dei due capitani centristi. Renzi è da sempre un maestro della tattica e adesso è cresciuto anche nel discorso parlamentare, facendo ricorso come mai prima d’ora alla retorica delle istituzioni. Il suo disegno è quello di condurre una guerra di movimento con l’obiettivo, esplicitato senza troppi infingimenti, di determinare l’estinzione definitiva del Partito Democratico, rappresentato come un’organizzazione fredda ormai campata in aria. Per questo, con una cinica determinazione, gioca d’anticipo e, a Roma come a Milano, intende mettere il Pd, assediato da ogni lato, dinanzi al fatto compiuto. Esercita una funzione di regia coalizionale anomala che enfatizza l’impossibilità del partito di Letta di scegliere. Lancia Moratti o D’Amato con il proposito evidente di far saltare gli equilibri nel centrosinistra. Vorrebbe preparare per i democratici un campo minato, destinato ad esplodere qualunque risoluzione il Nazareno adotti.

La guerriglia contro la lenta capacità di manovra del Pd conferma l’abilità neorinascimentale del fiorentino. In quello spazio politico di centro, in effetti, non c’è più posto per due offerte politiche distinte nei leader e nelle posture, ma affini nei programmi e nelle istanze sociali rappresentate. Una forza soltanto può sopravvivere fruttuosamente in quell’area. Se il Pd non coglie l’usura dello spazio liberaldemocratico – divenuto più stretto dinanzi alla rivendicazione renziana di esclusiva sovranità – è condannato ad una più o meno lenta agonia. La ritirata con giudizio (niente a che fare con la stucchevole lamentela sull’insediamento nelle ZTL) dovrebbe comportare una soluzione, non più rinviabile, dell’enigma dell’identità. Solo l’opzione socialista o laburista garantirebbe al Pd, altrimenti condannato all’oblio, di preservare una propria autonomia. Il congresso dovrebbe perciò edificare un partito identitario, capace di conquistare il centro dei nuovi diritti e di declinare la questione sociale nella post-modernità. Non ci sono alternative per conservare un proprio spazio rispetto agli appetiti famelici degli alleati riottosi e recuperare una piena capacità di manovra.

È evidente che un soggetto politico provvisto di identità e radicamento sociale non si spaventa dinanzi alla prima provocazione tattica ricevuta. Nemmeno un’operazione come quella Moratti lo metterebbe in difficoltà insormontabili. Senza identità, invece, con ferite non cicatrizzate, il Pd non può accettare di lasciarsi imporre dall’esterno una candidata autorevole che ha rotto con la destra e stringere con lei un patto faustiano tra il potere conquistato e la morale smarrita. Un bene strategico inestimabile, sottrarre alla destra la sua regione nevralgica, non può essere inseguito da un partito dimezzato, che uscirebbe dissanguato dalla campagna politico-mediatica ostile sull’immorale subalternità mostrata verso una signora che ha governato con la destra (lo stesso però potrebbe dirsi di Conte, o no?). Le possibilità di manovra, in Lombardia come nel Lazio, e l’efficacia della battaglia di opposizione richiedono un Pd rifondato, attraverso un vero processo costituente, come soggetto altro. In questo passaggio infinito alla ricerca del nuovo capo, il partito sconta molto il peso dell’irresolutezza.

Poco comprensibile è apparsa anche la rinuncia ad affidare la guida al vicesegretario Provenzano, come è sempre avvenuto in passato dopo le dimissioni del leader di turno. Per un partito dilaniato dalle correnti e scosso dalle turbe delle incertezze esistenziali la cura dell’identità è la più efficace terapia per la ripresa. È anche però la più difficile da seguire con efficacia dopo la prescrizione. Servirebbe un gruppo dirigente, non una semplice collezione di capicorrente alla ricerca di piccole risorse di gestione per distribuire nomine e carriere. È chiaro che, se dalle ceneri del Pd non rinasce un grande partito del lavoro, disperato diventa il governo della crisi della democrazia aggredita su scala mondiale dalle selvagge destre illiberali.

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