Più voce ai governi sui conti: così cambia l’Unione Europea

Lucrezia Reichlin Corriere della Sera 13 novembre 2022
Più voce ai governi sui conti: così cambia l’Unione Europea
La riforma delle regole di finanza pubblica proposta dalla Commissione, che mantiene una funzione di monitoraggio basata sull’analisi del rischio di ogni singolo Paese

 

Mercoledì scorso, la Commissione europea ha pubblicato la sua proposta di riforma del patto di stabilità e crescita ossia di riforma delle regole di finanza pubblica per i Paesi dell’Unione. La proposta sarà ora discussa a livello nazionale e nei vari consessi europei in un iter complesso e pieno di possibili incidenti di percorso. L’esito avrà importantissime conseguenze per l’Italia, Paese altamente indebitato. Ma non siamo solo parte passiva. L’elaborazione di un punto di vista equilibrato sulla proposta e la capacità di fare valere le proprie posizioni, sarà un nuovo test per il governo. La proposta costituisce un grande passo avanti rispetto al sistema esistente, fatto di regole complesse e divenute irrealistiche nel contesto economico degli ultimi anni. Romano Prodi, da presidente della Commissione le aveva definite «stupide». Quella frase, tanto criticata allora, si è rivelata quanto mai appropriata alla luce delle crisi multiple degli ultimi 15 anni. Le ragioni sono diverse.

Primo, se è vero che la sostenibilità del debito è un principio fondamentale, la valutazione non può essere legata ad un numero poiché dipende dalla complessa interazione tra crescita attesa, costo di rifinanziamento e deficit pubblico. Secondo, proprio per via di questa complessità, è bene che i Paesi siano pienamente responsabili delle scelte di spesa e di imposizione fiscale e che non le sentano come un obbligo di Bruxelles.

Queste scelte devono tenere conto delle specificità nazionali, devono conciliare obbiettivi di stabilità con obbiettivi di crescita e devono avere un orizzonte temporale di medio periodo. Il ruolo di Bruxelles è quello di garantire la coerenza dei piani nazionali con gli obbiettivi dell’Unione — non solo stabilità, ma anche crescita e transizione verde — e di verificare che gli obbiettivi definiti dai governi siano rispettati. Terzo, questa interazione tra governi nazionali e Commissione europea deve essere trasparente, affidarsi a criteri precisi pur mantenendo la flessibilità necessaria a fronteggiare eventi eccezionali — guerre, pandemie, crisi finanziarie globali.

Con queste considerazioni in mente, la proposta della Commissione si basa sul principio generale che la funzione di monitoraggio da lei svolta debba essere basata su una analisi del rischio Paese che tenga conto delle specificità di ciascuno, incluso il livello di debito acquisito. I Paesi sono tenuti a presentare programmi di spesa e tassazione in un orizzonte di quattro anni che integrino gli obbiettivi di sostenibilità di finanza pubblica con obbiettivi di investimento e di riforma. Per l’Italia questo significa incoraggiare il governo ad elaborare proposte che affrontino il nostro problema storico di bassa crescita potenziale in modo coerente a un piano di alleggerimento del debito graduale nel tempo. Si chiede quindi di agire sia sul numeratore che sul denominatore del rapporto debito-Pil e si accorda una estensione dei tempi per la riduzione del debito in cambio di un impegno su riforme e investimenti.

Più voce ai governi nazionali quindi, ma anche più responsabilizzazione per conciliare il principio di sovranità nazionale con un sistema di sorveglianza necessario a tener conto della interdipendenza tra Paesi e che quindi ponga limiti a scelte nazionali che possano mettere a repentaglio la stabilità finanziaria dell’Unione o i suoi obbiettivi di crescita.

Non è un «liberi tutti». Richiede la capacità della politica nazionale ad impegnarsi a scelte con un orizzonte più lungo — sicuramente nel caso tipico italiano — della durata di un governo. Per questo, idealmente, dovrebbe coinvolgere le opposizioni almeno nelle decisioni fondamentali. La proposta, nonostante alleggerisca le sanzioni pecuniarie oggi esistenti, rafforza il costo in termini reputazionali di una mancanza di rispetto degli impegni presi, proprio perché questi impegni sono elaborati dai governi nazionali.

È una proposta innovativa, ma non priva di insidie. Richiede la trasparenza assoluta dei criteri di valutazione della Commissione per evitare che si sospetti di abusi della flessibilità che viene accordata ai Paesi più a rischio che, come il nostro, partono da un debito molto alto. L’approvazione dei piani nazionali richiede anche un passaggio al Consiglio europeo, quindi la costruzione di un consenso multilaterale e della fiducia tra Paesi membri.

Si può anche sostenere che si sarebbe dovuto fare un passo in più. Per esempio, il Fondo monetario aveva proposto uno strumento comune ai fini della stabilizzazione ciclica dell’Unione da usare per contrastare un rallentamento temporaneo dell’attività causato da fattori esterni e comune a tutti i Paesi. Ma l’assenza di questo strumento, che molti economisti avevano suggerito, è stata probabilmente motivata dalla difficoltà di ottenere il consenso di tutti i Paesi. Già così, l’iter di approvazione sarà complesso e con esito non scontato.

Ma la palla torna ora ai governi nazionali. In questi anni, tutti, sia falchi che colombe, hanno ammesso che le regole esistenti non funzionano più. Le critiche alla Commissione devono quindi essere accompagnate da proposte alternative e credibili. Italia compresa.

Al governo italiano direi che questa è un’opportunità. È finito il periodo in cui i governi potevano facilmente attribuire la colpa dei propri fallimenti all’Europa. Ormai si è capito che il successo di un governo sta anche nella capacità di fare valere le sue posizioni in Europa, costruendo autorevolezza e rapporti in un contesto in cui le decisioni chiave si prendono sempre più lì. Si è capito anche che questo non significa cedere sovranità ma imparare a adoperare al meglio la interazione tra livello nazionale e federale. Lo spirito della proposta di Bruxelles è esattamente questo.

 

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