Montesano e poi Valditara, così la destra rimuove l’antifascismo e avvia il revisionismo storico

Michele Prospero il Riformista 15 Novembre 2022
La maglietta di Enrico Montesano e la lettera di Valditara: così la destra rimuove l’antifascismo
C’è un metodo nelle uscite grottesche del governo

 

 

Con la sua maglietta intonata alla nostalgia fascista, Montesano non è solo il giullare a corto di creatività che balla con i ritmi dello spirito nuovo. Il suo gesto rientra a pieno titolo in un clima. Magari il discorso sul fascismo fosse per intero una questione di “archeologia”, come ama ripetere qualche filosofo. Nel tratto pittoresco dei suoi interpreti di governo, la destra sta procedendo in maniera del tutto organica nel lavoro di rimozione del fondamento politico-ideale della Repubblica. C’è un metodo nelle uscite grottesche concepite da improbabili reincarnazioni di Gentile o Rocco: cancellare la genesi, confondere i princìpi.

La lettera del ministro Valditara è la sintesi perfetta della nuova verità di Stato che la destra intende imporre con le armi del potere. Dopo gli imbarazzanti silenzi nel centenario della marcia su Roma, il governo pare finalmente aver ritrovato l’inchiostro che serve per rinfrescare la memoria sui fatti del secolo scorso. Solo che, nelle parole della missiva ministeriale, non è più l’antifascismo il sostrato storico della democrazia italiana, ma la caduta del muro di Berlino. L’evento simbolico, provocato peraltro dalla visita liberatoria di Gorbaciov in quelle terre oppresse, non viene interpretato come la data della riunificazione tedesca. È presentato, piuttosto, come lo spartiacque cruciale che consente di ridefinire su basi del tutto alternative la storia delle idee e delle istituzioni occidentali.

La Germania riunificata diventa così il paradigma della liberazione europea dal comunismo, bollato seccamente nel documento come una “via che si lastrica di milioni di cadaveri”. Una tale narrazione, che fa di un singolo Stato come la Germania la cifra dell’intera vicenda europea (sono strani questi patrioti sovranisti che si sono accasati a Palazzo Chigi per vendicare la subalternità verso l’asse franco-tedesco), sostituisce con decreto il fondamento storico effettuale delle democrazie occidentali. Le carte bollate dei ministeri intendono rimuovere la verità storica per cui le esperienze di libertà del secondo dopoguerra sono sorte dalle rovine del nazifascismo. La sconfitta dell’Asse fu determinata dalla grande alleanza tra i pochi liberi Stati rimasti in occidente e l’Unione Sovietica. Con il suo revisionismo di Stato, l’Italia si accoda alle esigenze di legittimazione delle classi dirigenti di Stati entrati inopinatamente nel consesso politico europeo senza vantare alcuna esperienza democratica precedente

La lettera di Valditara persegue le stesse finalità delle classi dirigenti delle nuove destre dell’Est artefici di contagiose democrazie a bassa intensità. Da questi paesi, privi di una radicata tradizione liberal-democratica, e in molti casi con una storia semplicemente rimossa di collaborazionismo al soldo nazifascista, viene il movimento culturale per la riscrittura delle vicende del ‘900. Il governo italiano, con la sua rilettura à la carte del secolo scorso, mostra di avere le stesse esigenze dei discendenti di Corneliu Zelea Codreanu e del Conducător fascista Ion Antonescu, del bulgaro Filov alleato dei tedeschi, del regime filonazista ungherese delle Croci Frecciate, dei nazionalisti lituani delle Ypatingasis būrys, dei collaborazionisti estoni che edificarono nel ’41 uno Stato “judenfrei” (“libero dagli ebrei”), degli Ustascia croati di Ante Pavelić o del sacerdote antisemita slovacco Tiso. Per costoro la categoria di “totalitarismo” è una vera benedizione che condona il terribile passato dei regimi autoritari e collaborazionisti. La destra italiana coltiva la stessa esigenza di archiviare il cordone ombelicale che riconduce al fascismo come regime tirannico, e per questo la riscrittura della storia diventa un esercizio cruciale per l’egemonia. La Costituzione, i principi della Repubblica, sono destinati a crollare dinanzi all’operazione identitaria dei nuovi inquilini del governo. Kelsen spiegava che “la costituzione è un documento che attesta la situazione di equilibrio relativo nella quale i gruppi in lotta per il potere permangono fino a nuovo ordine”. Questo equilibrio, sorto con l’onda della Resistenza, pare ora infranto, almeno sul piano storico-valoriale.

Rilevante spia del mutato contesto è anche l’atteggiamento dei giornali dinanzi alle prime prove dell’esecutivo Meloni. Oltre al Corriere, luogo genetico del revisionismo storico ostile al paradigma antifascista, spicca la trasformazione del Messaggero in un foglio sempre più organico alle idee della destra radicale di governo. Il linguaggio del quotidiano romano è mutato in maniera molto evidente negli ultimi tempi. In un pezzo del raffinato politologo Campi si recupera una locuzione desueta e, riferendosi ai migranti, si parla di “allogeni”. “Allogeni”, spiega il vocabolario della Treccani, significa “di altra stirpe o nazione”. Il ritorno alle immagini della “stirpe” si congiunge con le parole dell’importante storico Pombeni, che sul giornale se la prende con le “navi che vanno alla ricerca di naufraghi per salvarli (e spesso anche di potenziali naufragandi)”. Il Messaggero pare lontano un miglio dal grande progetto editoriale di Vittorio Emiliani, che lo collocò a fianco dei nuovi diritti e dei movimenti progressivi che fiorivano nell’Italia tra fine anni Settanta e primi Ottanta. Il vecchio direttore, socialista nenniano, si sarà sentito colpito al cuore da un articolo di Luca Diotallevi che, in omaggio al brutto tempo nuovo, parla di “antifascismo da non mitizzare” e schiaffeggia “i social-comunisti” come nemici della democrazia. Per l’autore, nemico di un “antifascismo imbalsamato”, la vergogna della storia italiana sarebbero Nenni, Basso, Togliatti, Terracini, Pertini, Napolitano, Iotti, Craxi, Ingrao.

In ossequio ai reiterati bisticci del nuovo governo con la lingua italiana (tra articoli determinativi, nomi nuovi dati ai ministeri, norme scritte male e ricorso tecnicamente improprio a parole come “Nazione”), Diotallevi non si accontenta di pontificare che non è credibile “un anti-fascismo che non sia anche anti- comunismo”. Oltre a graffiare “i social-comunisti” del Fronte come potenziali carnefici politici, egli aggredisce la grammatica e scrive “camice nere” (sic). Con il suo tentativo di ricostruzione storica voleva mettere i puntini sulle i, ma ha proprio dimenticato di usufruire del contributo della preziosa vocale. Almeno l’ortografia è bene che conservi le sue regole “imbalsamate”. Quest’ultima, infatti, proprio come l’anticomunismo, non cambia mai, resiste al passaggio dei governi. E neppure mutano gli infelici comici in declino che, per farsi notare, annusano l’aria che tira e esibiscono la maglietta del fascio per accarezzare il potere che dura.

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