La salvezza del pianeta non vale il destino di Twitter

Riccardo Luna La Repubblica 21 novembre 2022
Perché possiamo ancora salvare il pianeta
Al Cop27 di Sharm el Sheik hanno vinto i lobbisti delle compagnie petrolifere ma il fondo per i danni causati dal clima è un risultato importante

 

 

Nell’annuale partita del clima, che si è appena chiusa a Sharm el Sheikh, tra i poeti schierati dagli attivisti e i silenziosi lobbisti delle compagnie petrolifere, presenti in massa alla conferenza, hanno vinto a mani basse questi ultimi. Probabilmente un mondo stremato dalla guerra in Ucraina, dalla crisi energetica e dal ritorno dell’inflazione non poteva ottenere di più questa volta. Siamo tutti distratti da altre emergenze. Su Twitter da giorni si parla solo di Elon Musk e Donald Trump; in Qatar inizia un mondiale di calcio segnato da migliaia di morti fra gli operai immigrati e dalla negazione dei diritti civili; perché proprio a Cop 27 avremmo dovuto mostrare il nostro volto migliore?

Eppure non è stata una Cop inutile e sarebbe sbagliato archiviarla come un fallimento. Cosa resterà? La giovane attivista iraniana-americana Sophia Kianni che dal podio accusa governi e aziende di dire una cosa e farne un’altra e poi rivela che sono le parole del segretario generale delle Nazioni Unite (hashtag: basta bugie); la poetessa ghanese di 10 anni Nakeeyat Dramani Sam che ai delegati racconta di aver incontrato il plenipotenziario americano al clima John Kerry notando che quando lei avrà la sua età (78 anni), il secolo starà finendo (hashtag: largo ai giovani); e infine il ministro degli Esteri di Tuvalu Simon Kofe che lo scorso anno aveva parlato con l’acqua del mare simbolicamente alle ginocchia per far capire quello che sta capitando ai suoi concittadini e stavolta ha detto che ormai puntano a diventare il primo arcipelago di isole che esiste nel metaverso, così da non perdere storie e tradizioni se dovessero scomparire dal mondo fisico (hashtag: il tempo è scaduto).

Resterà, ovviamente, un accordo raggiunto in extremis che alcuni definiscono piccolo ma non lo è: è semplicemente in ritardo di 31 anni. Tanti ne sono passati da quando per la prima volta, in una riunione internazionale, Robert Van Lierop, l’ambasciatore della Repubblica di Vanuatu (una ottantina di isole nel sud dell’Oceano Pacifico, considerate ad altissimo rischio di sopravvivenza per via dei cambiamenti climatici), pose per la prima volta il tema della creazione di un fondo con il quale i paesi responsabili dell’inquinamento atmosferico e quindi del riscaldamento globale, dovranno risarcire i paesi vittime del cambiamento climatico. La proposta non passò, ma da allora non si è smesso di parlarne e non più solo per le piccole isole minacciate dall’innalzamento dei mari, ma per tutti, perché i danni del cambiamento climatico riguardano lo scioglimento dei ghiacciai, la furia dei tifoni, la siccità e le alluvioni sempre più frequenti. Ne sappiamo qualcosa anche noi.

Di questa Cop 27 resterà insomma un principio fondamentale: chi inquina, paga. Che in pratica vuol dire che i paesi sviluppati, responsabili della stragrande maggioranza delle emissioni climalteranti, dovranno risarcire gli altri. È il riconoscimento della “giustizia climatica” quale precondizione per qualunque altro accordo. Non basterà a salvarci, ma era un passaggio obbligato: “overdue, scaduto” come recitava il cartello della poetessa bambina. L’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno ceduto su uno strumento che non solo costerà loro dei soldi ma che li mette sullo scomodo banco dei colpevoli, sperando di ottenere in cambio anche un impegno chiaro sulla eliminazione dei combustibili fossili.
Ma nella scelta fra combattere le cause del cambiamento climatico oppure risarcire le vittime, la maggior parte dei paesi non ha avuto dubbi: meglio pagare, che cambiare.

Come se i soldi potessero risolvere il problema che abbiamo, come se si potesse comprare un clima migliore. È una risposta non solo egoista: è una risposta miope. I danni del clima rischiano di essere incalcolabili come si è visto quest’anno con l’alluvione in Pakistan; e non riguardano soltanto paesi poveri e lontani. Gli effetti si sentono sempre più forti anche da noi, cambiando le nostre vite e la nostra economia. Chi pagherà quel conto? E soprattutto: che senso ha ritardare la transizione ecologica verso un sistema libero dal petrolio e dal gas, per poi essere comunque costretti a cambiare vita, in peggio, per il clima?

Ma non finisce qui. Un giorno tornerà la pace, la crisi energetica rientrerà, l’inflazione la smetterà di erodere il nostro potere di acquisto. E allora ci ricorderemo che la vera partita che abbiamo tutti davanti, il mondiale che non possiamo perdere, non è il destino di Twitter ma la salvezza del pianeta. E ci accorgeremo di avere gli strumenti, la tecnologia e anche le risorse finanziarie per farlo. Quando tutto sembra perduto il protagonista del romanzo “Novecento” avverte che nella vita non è finita “finché hai una storia da raccontare e qualcuno a cui raccontarla”. Gli attivisti, gli scienziati, gli innovatori e i poeti che credono che un altro mondo sia possibile, possono ancora farcela.

 

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