Musk, il tycoon odiato dall’élite di sinistra che vuole boicottarlo

Federico Rampini Corriere della Sera 21 novembre 2022
Musk, il tycoon odiato dall’élite di sinistra che vuole boicottarlo
Era circondato da sospetti, considerato stravagante. Con Trump ha avuto un rapporto burrascoso. I media sono in massima allerta, ma non obiettarono quando Bezos comprò il Washington Post

 

«Vox populi, vox dei. Il popolo ha parlato, sia fatta la sua volontà». Così Elon Musk ha annunciato il risultato del referendum che aveva indetto su Twitter: hanno vinto i favorevoli a riammettere Donald Trump sul social media, dopo due anni di censura. Musk oggi si presenta come l’arbitro della democrazia americana, quantomeno del suo discorso pubblico sulla «piazza digitale», come definisce Twitter. Già si considerava un salvatore dell’ambiente con l’auto elettrica Tesla; un costruttore del nostro futuro nello spazio con i lanci di Space-X; un attore della geopolitica con i suoi satelliti essenziali per l’esercito ucraino.

Come tanti miliardari, Musk non si rassegna ad essere solo un imprenditore di talento: vuol essere considerato un idealista. Invece i 1.200 dipendenti che si sono dimessi spontaneamente da Twitter — oltre ai 3.500 che aveva licenziato lui — temono che l’uomo più ricco del mondo abbia perso il tocco magico e sia un magnate nei guai. Per di più di destra. Cioè un appestato nella città più politicamente corretta del mondo, San Francisco. Quando di Twitter lui era solo un utente — con 110 milioni di follower appassionati che si fanno chiamare «topi muschiati» o «moschettieri» per assonanza col suo cognome — maneggiava il social con il gusto della provocazione: «Gioco a fare lo scemo su Twitter e mi metto in un mare di guai ma lo trovo terapeutico». Adesso il giocattolo terapeutico è suo, investendoci 44 miliardi di dollari lo ha strapagato proprio quando il mondo Big Tech è franato in Borsa. Ora affronta un test formidabile: la fuga di ingegneri alla vigilia dei Mondiali di calcio nel Qatar, metterà a dura prova il software di Twitter, quarto sito mondiale con 7 miliardi di visitatori al mese dietro Google YouTube e Facebook.

Musk fece irruzione nella mia vita nel 2009, quando dalla Cina tornai a vivere negli Stati Uniti. Era circondato da sospetti, considerato stravagante e inaffidabile, nel Pantheon delle divinità tecnologiche allora dominato da Steve Jobs. Un fidanzato di mia figlia che lavorava da Apple per Jobs, a Cupertino, fu uno dei primi acquirenti di una Tesla: la decantava come «un iPhone su quattro ruote». L’adozione di quell’auto-icona da parte dei geni della Silicon Valley era un segnale. In seguito ebbi diritto ad uno dei primi test di pilotaggio semiautomatico, sulle strade della California dov’era cominciata l’invasione silenziosa dei roadster Tesla. Di lì a poco Musk abolì l’ufficio relazioni pubbliche dell’azienda. Il suo disprezzo per i giornalisti ha scatenato la nostra attrazione verso il frutto proibito: le performance spettacolari dell’uomo più ricco del mondo sostituiscono il «culto» che un tempo dedicavamo a Jobs.

Con Trump ha un rapporto burrascoso. Musk — 51 anni e un patrimonio che vale esattamente cento volte quello del palazzinaro newyorchese — lo ha fatto imbestialire rivelando di non aver mai votato per lui. Peggio, sull’ex presidente ha aggiunto: «È tempo che navighi verso il tramonto, è troppo vecchio per fare il chief executive di qualsiasi cosa, tantomeno degli Stati Uniti». La deludente performance elettorale dei repubblicani, e le critiche che hanno accolto anche a destra l’annuncio della sua ricandidatura, hanno ammosciato l’eccitazione attorno al ritorno di Trump su Twitter.

Re Mida delle controversie che trasforma in scandalo ciò che tocca, Musk deve aver contagiato con questo dono i familiari. Sua madre Maye, ex modella, ha detto che quando va a trovare il figlio nella sua base spaziale di Boca Chica (Texas), Elon la costringe «a dormire in un garage», perché non ci sono alloggi migliori a fianco di una piattaforma per missili. Una figlia adolescente lo detesta perché lui accusa i college americani di indottrinare la gioventù al marxismo. E nonostante i dieci figli che ha riconosciuto, c’è chi crede alla leggenda per cui avrebbe comprato una clinica della fertilità per diffondere il proprio Dna.

Ora che Musk è il padrone di un social, l’élite di sinistra che domina i media americani è sul piede di guerra. Dal New York Times alla Cnn è massima allerta, per il danno che può fare il supermiliardario con un pubblico da 250 milioni di utenti fissi. Nessuno di quei media obiettò quando Jeff Bezos (Amazon) comprò il Washington Post per contrastare Trump; né quando Bill Gates spende miliardi in sintonia con Obama-Biden; né quando Michael Bloomberg e George Soros donano centinaia di milioni a candidati democratici. Musk è un raro caso di miliardario Big Tech schierato contro l’establishment progressista. Ha dato del «fascista» al governatore democratico della California, Gavin Newsom, per le restrizioni durante i lockdown.

E soprattutto ha spostato la sede Tesla dalla California iper-tassata e iper-regolata al Texas repubblicano. Perciò la sinistra ha mobilitato il mondo del business perché boicotti la pubblicità su Twitter sotto la nuova gestione. Per avere un’idea dell’atmosfera tossica attorno a Musk, basta confrontare la visibilità enorme e velenosa che i media dedicano ai guai di Twitter, con i toni più neutri riservati alla bancarotta fraudolenta di FTX. Il crac da 32 miliardi della Borsa di criptovalute FTX ha come protagonista uno dei massimi donatori al partito democratico e alla galassia delle ong progressiste. Dal coro che processa Musk si dissocia Jack Dorsey, fondatore di Twitter: l’unico a ricordare che la crisi del social ebbe inizio anni fa.

Cosa vorrà farne Musk per salvarlo? Un’idea è trasformare Twitter in una «app tuttofare» sul modello della cinese WeChat: la messaggeria si affianca a una piattaforma per acquisti online e un sistema di pagamento digitale. Rinunciare alla censura politica di parte è un modo per allargare il pubblico. Riuscirà a ripetere uno dei suoi successi impossibili? Esordì come co-fondatore di PayPal, sistema di pagamento che oggi ha diffusione mondiale. Ancora qualche anno fa molti erano convinti che la Tesla era un’impostura, oggi vale 580 miliardi, molto più di Ford e General Motors messe assieme. I suoi annunci sulla conquista dello spazio furono sbeffeggiati, oggi Space-X vale 150 miliardi e la Nasa gli affida un ruolo chiave anche per il ritorno sulla luna.

Grazie a Starlink, Musk ha un ruolo determinante nella guerra ucraina. Su quei satelliti viaggia la comunicazione delle forze armate di Kiev. Putin ha minacciato di «prendere di mira satelliti americani», e non si riferiva a tecnologie del Pentagono bensì alla rete di Musk. Quest’ultimo però, facendo leva sull’aiuto che fornisce a Zelensky, gli ha proposto un suo piano di pace che prevede concessioni territoriali alla Russia. Dalla Cina all’Iran, i regimi autoritari studiano il ruolo di Starlink e diffidano di Musk.

Lui non rinuncia a spiazzare: lancia un piano per Taiwan che la trasformerebbe in una «zona amministrativa speciale» della Repubblica Popolare, cioè un’altra Hong Kong. Inaccettabile per i taiwanesi. Il capo di Tesla è riuscito a mantenere un buon rapporto con Xi Jinping e la sua fabbrica più grossa sta a Shanghai. La débacle di Twitter è un episodio di una storia più grande: Big Tech è entrato in una crisi che non risparmia nessuno, il Wall Street Journal parla di «crepuscolo degli dei». La tempesta scuote giganti come Amazon e Meta-Facebook. Mi riporta al mio esordio nella Silicon Valley, in coincidenza con il crac del Nasdaq nel marzo 2000 che travolse molte aziende della prima rivoluzione Internet. La «distruzione creatrice» del capitalismo mi accolse 22 anni fa quando andai a vivere in una San Francisco dove giovani milionari delle start-up diventavano disoccupati in poche ore. Era il mondo di cui Musk, ventinovenne, imparava le regole del gioco.

 

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