Massimo Recalcati La Repubblica 28 novembre 2022
Il bullismo dell’autorità fra i banchi
Il lapsus del ministro Valditara è significativo, bisogna riflettere sul ruolo dei “maestri”
Le recenti esternazioni del neoministro all’Istruzione Valditara che esaltano l’umiliazione come pratica pedagogica, sono talmente gravi da lasciare basiti. La successiva rettifica — non voleva attribuire valore all’ “umiliazione” ma all’ “umiltà” — peggiora se possibile la situazione conferendo valore di lapsus alla prima espressione. Ricordo che, in psicoanalisi, il lapsus non è mai un semplice errore linguistico, ma ciò che riflette la convinzione più profonda del soggetto che lo pronuncia. Dunque questo “lapsus” impressiona non solo per la rozzezza delle argomentazioni che lo sostengono e che cozzano contro il ruolo di altissima responsabilità che egli ricopre, ma per il messaggio educativo che esso veicola. Personalmente non ho pregiudizi ideologici verso l’azione governativa di Gorgia Meloni e ho trovato profondamente antidemocratiche le critiche che hanno addirittura messo in questione il suo diritto a governare dopo aver vinto legittimamente le elezioni.
Anzi, come italiano mi auguro che questo governo possa fare il meglio possibile in un momento di massima difficoltà e di emergenza collettiva. Ho anche speso parole pubbliche per difendere l’idea del merito non solo perché del tutto coerente con i principi della Costituzione, ma perché necessaria per rifondare una cultura autenticamente democratica della Scuola italiana. Tuttavia, le parole di questo ministro sembrano provenire dal medioevo. Sia che si tratti di umiliazione che di umiltà. Ma non perché non sia fondamentale in ogni processo educativo l’esperienza del limite e del riconoscimento delle proprie responsabilità, ma perché non c’è alcun valore educativo né nell’umiliazione, né nell’imposizione dell’umiltà.
Anzi, se c’è un compito etico della Scuola è proprio quella di liberare le vite dei nostri figli dall’esperienza ingiusta dell’umiliazione. Il bullismo di ogni specie ha infatti proprio nell’umiliare l’avversario il suo principio fondamentale. La gogna pubblica non favorisce mai l’assunzione delle proprie responsabilità, ma solo il risentimento rabbioso e l’aggressività se non l’identificazione con una versione solo sadica del potere che tenderà a riprodurre su altri la violenza subita. In che mani siamo? Come può un Ministro dell’istruzione generare questi equivoci, fraintendere egli stesso il valore dell’esperienza del limite con l’esaltazione convinta della necessità dell’umiliazione come fattore di formazione della personalità? L’incontro con il limite non serve ad umiliare la vita, ma a mostrare che è solo grazie a questo incontro che diviene possibile l’esperienza generativa del desiderio.
Se non si tengono in rapporto la dimensione normativa della Legge con quella vitale della trasmissione del desiderio ogni progetto educativo risulta fallimentare. Non solo. Nel suo discorso il Ministro ha evocato la necessità della stigmatizzazione pubblica per favorire al reo l’assunzione delle proprie responsabilità. Ma egli non sa che ogni stigmatizzazione genera un’identificazione all’escluso che non attiva affatto la spinta al riscatto sociale e culturale ma facilita drammaticamente il rischio definitivo dello sbandamento e della dissipazione? Possibile che si dimentichi che la vocazione fondamentale del lavoro di ogni insegnante procede proprio avversando ogni stigma per dare a ciascuno la possibilità della propria particolare realizzazione?
Ma non è questo il vero contenuto del famigerato merito che i padri costituenti avevano giustamente riconosciuto nella sua funzione fondamentale? Dare alla vita dei nostri figli la possibilità di acquisire un valore che prescinde dal sangue o dal colore della pelle, dalla ricchezza o dalla povertà? E dovrebbe essere questo il ministro che difende il valore formativo del merito? L’analfabetismo intellettuale che lo spinge a confondere umiliazione-umiltà con educazione appartiene ad una cultura della pedagogia autoritaria che dopo il ’68 pensavamo di avere superato definitivamente. Con un problema aggiuntivo che è necessario sollevare: il “lapsus” del ministro trova purtroppo ancora nella nostra Scuola ferventi adepti.
La severità ottusa è l’altra faccia della latitanza educativa e del disimpegno frivolo o apatico di cui il ministro a ragione si lamenta. Sono i due grandi sintomi speculari di cui soffre la nostra Scuola oggi. Da una parte essa vorrebbe preservare la sua antica e nobile reputazione difendendo una autorità in declino con la difesa della disciplina e di un rigore solo formale, dall’altra essa appare rassegnata al venir meno di ogni sua autorevolezza colludendo con la pigrizia di ragazzi che non vogliono più faticare acconsentendo di fatto alla sua trasformazione in un asilo sociale. Come trattare questo doppio sintomo che affligge la nostra Scuola? Forse era il caso di cominciare dalla scelta di un ministro diverso? Magari un intellettuale in grado di avere un pensiero profondo sulla scuola e sulla sua vocazione? È solo nel riabilitare il carisma profondo del maestro che possiamo restituire autorevolezza alla nostra Scuola. Ma noi siamo nelle mani di un ministro al quale sembra che sfuggano addirittura i fondamentali.
Allora ci sarà il bullismo istituzionalizzato dell’autorità contro il bullismo selvaggio dei negligenti. Bisognerebbe avere invece il coraggio di volare in alto. A proposito di patriottismo: non abbiamo forse noi il privilegio di essere seduti sulle spalle dei giganti che ci hanno preceduto nella nostra straordinaria cultura che tutto il mondo ci invidia? Non rischiamo con il lapsus del ministro di umiliare questa tradizione, le nostre radici, la nostra stessa storia?