Il ceto medio dipendente paga la crisi ed è senza rappresentanza

Massimo Giannini La Stampa 4 dicembre 2022
La politica post-populista che ha tradito il ceto medio
Nell’Italia che tribola tra povertà e disuguaglianza ci siamo dimenticati del ceto medio. Per decenni base sociale, culturale ed elettorale dei grandi partiti di massa, quella che ai tempi delle vecchie classi avremmo chiamato “piccola borghesia” ha pagato il prezzo più alto alla globalizzazione mondiale.

Nei Paesi emergenti è diventato ceto medio un discreto frammento di proletariato. Nei Paesi evoluti è diventato proletario un bel pezzo di ceto medio. Ma non è scomparso. Lavora, combatte, resiste. Così oggi, in Italia, è proprio il plotone residuo di travet privati e pubblici che soffre in trincea e patisce la “malinconia” certificata dal Censis. E pur non essendo scivolato alla base della piramide sociale, ne sostiene quasi per intero i costi.
Colpevolmente ignorato da una destra troppo impegnata a onorare i suoi debitucci corporativi e da una sinistra troppo concentrata sulle sue pratiche di autodistruzione, l’ultimo Rapporto di Itinerari Previdenziali che abbiamo pubblicato venerdì scorso andrebbe studiato e usato come base documentale per qualunque nuovo programma di governo. Altro che pretenziose “Carte dei valori” e ampollose “Costituenti”: basterebbe ragionare su poche ma precise metriche fiscali, e un serio Manifesto politico nascerebbe quasi da solo. I dati dell’osservatorio di Alberto Brambilla non parlano, urlano chiaro: su 41 milioni di contribuenti, solo in 5 milioni (versando il 60 per cento dell’Irpef totale) si caricano sulle spalle il finanziamento del Welfare per tutti gli altri 36 milioni. È una tendenza in atto da anni, ma che si va accentuando, anche a causa di leggi di bilancio che, per logiche da voto di scambio, tendono a erodere le basi imponibili a colpi di bonus e tax expenditures.

E ad allargare il perimetro dei cittadini sottratti a vario titolo agli obblighi tributari. La pressione fiscale risale al 43,3 per cento, quarto posto in classifica nell’area Ocse. L’oppressione fiscale si concentra sempre di più sui soliti noti, i dannati del reddito fisso che non possono sfuggire perché a prelevare dal lordo in busta paga provvedono le aziende in veste di sostituti d’imposta. Così, come osserva l’economista Mario Seminerio, i forzati dell’Irpef reggono un intero Paese. E per questo, alla lunga, sono forse i più propensi alla disaffezione democratica e alla diserzione delle urne. Per riprendere un’altra formula del Censis: è la “ritrazione silenziosa dei cittadini perduti della Repubblica”.

In base alla manovra appena approvata e bollinata dalla Ragioneria, la spesa pubblica totale nel 2023 raggiungerà i 1.183 miliardi. Sul fronte deficit, questo significa un aumento di 1,1 punti rispetto al tendenziale, necessario a fronteggiare i nuovi oneri legati al caro bollette. Sul piano del debito, tra nuove emissioni nette e titoli da rinnovare il Tesoro farà ricorso al mercato per 516 miliardi, 11 punti in più rispetto a quest’anno. Spendiamo tanto, e questo è noto. Il vero tema, oltre al “quanto”, è il “come”. E qui torniamo alle cifre di Itinerari Previdenziali, che meritano un ripasso: 122,7 miliardi se ne vanno per la spesa sanitaria, 144,7 per l’assistenza sociale e 11,3 per il Welfare degli enti locali. Il totale, 278,7 miliardi, lo copre la fiscalità generale, cioè oltre a Ires, Irap, imposte sostitutive e imposte indirette, soprattutto l’intero gettito Irpef. Ma basta guardarci dentro, per scoprire che l’Irpef è uno scandalo. Sui 41 milioni di italiani che presentano la dichiarazione dei redditi, solo 30,3 milioni hanno versato almeno 1 euro: gli altri 11 milioni, zero. Il 79 per cento dichiara fino a 29 mila euro, e paga solo il 27,5 per cento dell’imposta totale. Il 12,9 per cento dichiara da 35 a 55 mila euro, e paga il 60 per cento del totale. L’1,2 per cento dichiara oltre 100 mila euro, e paga il 19,9 per cento del totale.

Troppa aritmetica, lo so. Ma dentro c’è tanta politica. Qui si disvela la fotografia storica delle infedeltà fiscali tollerate e delle politiche redistributive mancate. Rimane inaccettabile che solo un italiano su 100 denunci al Fisco più di 100 mila euro l’anno. Ed è sempre più insostenibile che quella fascia intermedia del 12,9 per cento di redditi compresi tra 35 e 55 mila euro sopporti il 60 per cento dell’imposta complessiva. Come osserva il presidente della Cida, Stefano Cuzzilla, “il fatto che i lavoratori con redditi superiori a 35 mila euro lordi siano appena il 12,9 per cento apre a un’unica alternativa: o stiamo scivolando verso un impoverimento generale non adeguato a una grande potenza industriale, oppure in questo Paese c’è un sommerso enorme”. Realisticamente, sono vere tutte e due le cose. Da un lato c’è la macelleria sociale sul ceto medio, che per com’è costruito il nostro sistema tributario non ha scampo. Dall’altro lato c’è il dilagare pressoché incontrollato del “nero”, che con tutta evidenza vale infinitamente di più dei 70 o 100 miliardi stimati. Viceversa, non si spiegherebbe l’abisso di una “nazione” (!) che ha più di 6 milioni di poveri, un Pil 2021 pre-guerra a livelli di miracolo economico e aziende quotate in Borsa che chiuderanno i bilanci 2022 con profitti medi in crescita del 12 per cento.

Se questa è la cornice, le ultime manovre peggiorano il quadro. La lotta alle povertà è un imperativo etico-morale, che esige misure corpose e risorse generose. Ma andrebbero cercate altrove. Non solo e non sempre sugli “appositi” dipendenti per lo più aggrappati intorno o sopra al tetto dei 35 mila euro, che a parità di reddito pagheranno quasi 10 mila euro in più rispetto agli autonomi con partita Iva, appena “premiati” dall’esecutivo con l’estensione della Flat Tax fino agli 85 mila euro di ricavi. Andrebbero cercate soprattutto nel mare torbido dell’evasione, dove sguazzano ancora centinaia di migliaia di pesci grandi e piccoli. E invece, anche qui, per ragioni di puro calcolo elettorale si fa l’opposto da anni, tra condoni parziali o tombali, sanatorie e ravvedimenti operosi, scudi sui capitali esteri e saldi&stralci. La Melonomics non fa eccezione: pace fiscale e cartelle rottamate, aumento a 5 mila euro della soglia all’uso del contante, abolizione delle sanzioni per l’esercente che non fa pagare con il Bancomat o la carta di credito le operazioni fino a 60 euro, rendendo il finto “obbligo del Pos” una presa in giro per lo Stato esattore e per il cittadino consumatore, oltre che una rischiosa violazione degli impegni presi con la Ue sul Pnrr.

Le destre non hanno tempo per ragionare sulla questione sociale: stanno saldando la cambiale sottoscritta con le rispettive constituency prima del 25 settembre. Salvini è coerente: se vuoi prendere il caffè con la moneta elettronica, e magari vuoi persino pagare le tasse, sei semplicemente un “rompiballe”. Meloni è ancora più coerente: per i dipendenti possono bastare 11 euro al mese in busta paga grazie al taglio del cuneo fiscale, e per il resto “siamo al fianco dei lavoratori autonomi, artigiani, commercianti, liberi professionisti, figli di un dio minore che invece costituiscono un asse portante dell’economia italiana”, come ha detto nel discorso sulla fiducia in Parlamento. Per i pensionati al minimo vanno bene 60 euro di aumento, per quelli con un assegno da 2 mila euro lordi scatta il blocco di metà della rivalutazione. E poi sconti in bolletta per le famiglie più fragili, ma taglio netto dal 2024 sul Reddito di Cittadinanza per “occupabili” e working poor, che finora hanno preso il sussidio solo perché lavorando guadagnano la miseria di 3 mila euro l’anno. Un “salto nel buio” che preoccupa persino il primo banchiere italiano, cioè l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo Carlo Messina.

Le sinistre non hanno testa per riflettere su come ricucire la tela strappata della rappresentanza: stanno pagando il prezzo al loro mesto autodafé. Da una parte Calenda e Renzi, pronti a portare farina al forno della Sorella d’Italia. Dall’altra Giuseppe Conte, pronto a cavalcare tutte le piazze e a fare l’avvocato di qualunque popolo. In mezzo il Pd, ripiegato sul congresso più confuso e più astruso del pianeta, verosimilmente indirizzato verso un derby emiliano tra il “partito dei territori” di Stefano Bonaccini e il “partito delle soggettività” di Elly Schlein, allegramente proiettato verso un glorioso e pulviscolare futuro di nuove micro-scissioni. Afono e atono, vaga senza sapere se un popolo ce l’ha ancora, ed eventualmente qual è. Litiga sulle tesi di Veltroni del 2007. Già che c’è, arrivi al Togliatti del 24 settembre 1946 e al suo celebre discorso di Reggio. Si intitolava, per l’appunto, “Ceto medio e Emilia Rossa”. —

 

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