Alessandro De Angelis La Stampa 5 dicembre 2022
I dem ora rischiano la deriva francese
Bella ciao: anche la volta scorsa, dopo la rovinosa sconfitta del 2018, fu il leitmotiv del post-voto. Ed è andata a finire col Conte 2 prima, col Draghi 1 poi, e, da ultimo, con una sconfitta ancora più rovinosa.
Antico riflesso del Pd: quando sta al governo, ci sta quasi a prescindere; quando perde, c’è chi riscopre i nobili canti della propria o altrui giovinezza. Bella ciao, cantano pure stavolta con Elly Schlein. Va bene: è giovane, donna, ama una donna, è animata da sincera passione, promette percorsi “collettivi” e “un nuovo modello di sviluppo” (già sentito dai tempi di Pietro Ingrao). E giura che combatterà le correnti, però sembra quasi una “excusatio non petita” vedendo i suoi principali sostenitori, di cui Elly Schlein avrà bisogno per vincere il congresso tra gli iscritti.
La novità, si dice. Eppure è lo schema più antico del mondo: lei il volto presentabile, loro, i Gattopardi, che tengono i fili del comando, secondo l’antica logica che per non cambiare nulla bisogna far finta di cambiare tutto (se cadesse Giorgia Meloni, sarebbero già pronti ad accroccare un governo senza perdere tempo a cantare). La verità è che c’è assai poco di nuovo in questo congresso molto emiliano tra presidente e vice (a proposito anche Paola De Micheli è emiliana), con l’Italia spettatrice. Dettaglio mica male: tutti espressione dell’unica regione dove il consenso è rimasto più o meno in piedi. Però, davvero, il grande assente, in mezzo a tanti bei discorsi è il merito delle politiche: il “come” declinare i principi e “con chi”.
Insomma, il popolo, che non è un dato sociologico ma – attraversato da bisogni, ambizioni, contraddizioni – una costruzione politica. C’era una volta il Pd, nato con l’ambizione di tenere unito riformismo e radicalità, perché il primo senza la seconda rischia di essere amministrazione dell’esistente, e la seconda senza il primo una chiacchiera ideologica. Di questo cimento delle origini c’è assai poco, dopo il decennio del governo senz’anima: da un lato un candidato che esprime una rimasticatura poco convinta di questa vocazione maggioritaria, ancora priva di una profonda innovazione di programma; dall’altro la vocazione minoritaria di una sinistra, compiaciuta e rassicurata del suo essere parte, che non si pone il problema di una visione d’insieme. Un po’ social-populista, ma neanche fino in fondo proprio a causa del condizionamento correntizio. Il rischio: comunque vada a finire, se vince l’uno, l’altro se ne va (la separazione avvenuta nel medesimo piano della medesima Regione tra un presidente e una vice non è un dettaglio).
Insomma, un congresso (per ora) di declino. E se non si parla di “deriva francese” della sinistra italiana è solo grazie a quell’insediamento, chiamiamolo col suo nome, di matrice “comunista”, eroso, ma finora non disponibile, per la gran parte, a contemplare altre offerte. E speriamo che alla fine non si sfasci pure l’Emilia-Romagna.