La festa in strada dei nuovi italiani “Non è calcio, è appartenenza”

Maurizio Crosetti La Repubblica 7 dicembre 2022
La festa in strada dei nuovi italiani “Non è calcio, è appartenenza”
La comunità marocchina celebra la vittoria dei Leoni dell’Atlante contro la Spagna nel quartiere Barriera di Milano, a Torino. Sono circa 22 mila i marocchini residenti nella provincia torinese, 53 mila in tutto il Piemonte. Festeggiamenti anche a Milano, Genova e Roma

 

Lo stadio in una stanza è grande come una terra lontana e mai vista, il Marocco dei nonni e dei bisnonni, è la bandiera rossa con la stella verde appesa accanto a quella italiana. I ragazzi vivono l’estasi che ricorderanno finché campano, e cantano, ballano, battono le mani, sgranocchiano noccioline davanti allo schermo del centro “Yalla Aurora”, profonda barriera torinese vicino al mercato di Porta Palazzo. Ma a sera, dopo l’incredibile impresa, la festa si scatenerà in tutta Italia, una grande festa araba nelle metropoli dove le comunità vivono e lavorano da decenni, per l’unica squadra di calcio rimasta a rappresentare quella vasta porzione di mondo.

I ragazzi devono decidere se guardare la Rai oppure beIN Sports, in arabo, alla fine scelgono la Rai perché si vede meglio. La chiamano “doppia assenza”: portare nel cuore un po’ di Italia e un po’ di Marocco, tutto e niente, ma è soprattutto una doppia appartenenza. Ce lo spiega Amajou Abderrahmane, per tutti Ab, trentaseienne con laurea e master, coordinatore dell’ufficio internazionale di Slow Food. È venuto anche lui con i ragazzi dal doppio destino: «Il nostro non è più segnato, molti tra noi studiano, la mia mamma è analfabeta, mio padre faceva il venditore ambulante, noi figli siamo qui a dimostrare che oggi è sempre meglio di ieri».

Non è più il tempo dei maruchin , i meridionali del mondo che per i torinesi degli anni Sessanta, non pochi razzisti fino nel midollo, erano tutti la stessa cosa, napoletani, calabresi, africani. Dovrebbero ascoltare Yassin Elbahi, 17 anni, studente di marketing di Settimo Torinese, anche lui davanti alla tele, mentre dice testualmente: «A parer mio è ancora difficile integrarsi ma sempre meno, la gente non è più così propensa a vedere diversità che non esistono».

Il meraviglioso giorno del Marocco è gioia distillata in purezza da queste sessanta anime, nell’aula studio di “Yalla Aurora” che durante il mondiale è trasformata in sala tivù: e adesso arriva Ronaldo. Sugli scaffali i Promessi Sposi insieme al Corano. I ragazzi cantano l’inno che dice, profeticamente, “il tuo campione si è alzato e ha risposto alla tua chiamata”, sembra scritto apposta per Hakimi ma qualche secolo fa. Magliette rosse, e le facce di più. Sorrisi spalancati e increduli mentre il giorno prende forma, la forma che hanno i sogni. Qualcuno declama i canti al microfono che la curva dentro la stanza segue, “Daba dji daba”, “adesso arriva adesso” (la vittoria) oppure “Lei, lei, lei, la vittoria arriverà”. Urla secche come colpi di vento, “yalla, yallaaa!” che vuol dire “andiamo!” e poi “sir!” che significa “vai!”. Ogni pallone è un’ovazione, ogni palpito è uno scampato pericolo.
Sui telefonini corre un meme che dice “adesso ci prendiamo l’Andalusia”, intanto i minuti passano e la sala si gonfia di altra gente, altre mamme con i bimbi in braccio, il venditore di croccanti col carretto parcheggiato al piano di sotto, l’aranciata nei bicchieri di plastica e il rimbombo nel buio perfetto. «Ma questa non è solo una partita di calcio, questa è pura appartenenza», spiega Souad Maddami, 36 anni, giovane donna che è venuta con i suoi due bambini. «Non m’interessa il calcio però oggi bisognava esserci, oggi è il riscatto delle seconde generazioni, quelli nati in Europa ma con le radici in Marocco, quelli che parlano male l’arabo e ci fanno sorridere, quelli che hanno l’identità multipla ma anche il disagio di sentirsi stranieri in Italia e turisti in Marocco, quando e se ci vanno ». Souad è project manager per una Ong che si occupa di progettazione sociale. Il mondo è cambiato meravigliosamente, a volte è bello pensarlo. Nell’intervallo i ragazzi vanno a pregare nella moschea che era un garage e sta in cortile tra biciclette, panni stesi e tronchetti della felicità. Le foglie lucide riflettono le ultime luci della sera. Poi mangiano patatine e si rimettono all’opera con occhi e gole scatenate. Lo stadio in una stanza non ha più pareti, ma alberi. «Portatela a casa, ragazzi» ritma in arabo il ragazzo al microfono e adesso sono tutti in piedi, qualcuno è salito sopra la seggiola. Supplementari e rigori scorrono via così, come acqua di fonte, prima dell’ultimo tiro e del primo mortaretto. Tutta la notte si andrà avanti tra caroselli e clacson, nei quartieri stupefatti dove i maruchin non credono a quello che vedono, però vedono quello in cui credono.

 

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