Sicilia isola strategica, quindi anche il Ponte sullo stretto

Lucio Caracciolo La Stampa 7 dicembre 2022
Perché il ponte sullo Stretto stavolta è opera strategica
Il ponte sullo Stretto di Messina va fatto perché è una priorità strategica per l’Italia. Per questo motivo probabilmente non sarà mai fatto.

 

In questi giorni il dibattito sull’infrastruttura destinata a collegare la penisola alla nostra isola principale è riesploso, suscitato dalle enfatiche dichiarazioni del ministro Matteo Salvini circa la disponibilità comunitaria a finanziare la prima fase dell’opera. Annuncio raffreddato dalla commissaria europea ai Trasporti, la romena Adina Valean. La quale ci ha ricordato che per finanziare il progetto serve un progetto. Ora il governo Meloni intende riattivare l’ultimo progetto, assai discusso e certamente da rivedere. Del ponte i governi nostrani discutono almeno da quando nel 1876 il ministro Giuseppe Zanardelli stabilì: «Sopra i flutti o sotto i flutti, la Sicilia sia unita al Continente!».

Dotte dissertazioni ne hanno sceverato ogni possibile variante. Senza che prevalesse definitivamente un partito o l’altro, se non quello della disputa continua. I duellanti si misurano sugli aspetti geofisici, strutturali, architettonici, economici, simbolici eccetera. Su tutto salvo che sul valore o disvalore strategico dell’opera. Insomma: è o non è il ponte di interesse nazionale? Ovvero, ci conviene o meno connettere il territorio italiano per quanto possibile? La domanda dovrebbe contenere la risposta. Non così da noi.

La ragione è semplice: non abbiamo una strategia. Ogni paese che si rispetti dovrebbe mirare, per la sicurezza propria, a stabilizzare le aree di frontiera e a collegare le periferie al nucleo centrale. Da almeno trent’anni – ovvero dalla contemporanea fine della guerra fredda e della Prima Repubblica, quando una strategia c’era eccome – ci affanniamo in direzione ostinatamente opposta e contraria. Destabilizziamo le frontiere e disconnettiamo il paese. Le disintegrazioni della Jugoslavia e della Libia, cui abbiamo attivamente partecipato, ne sono monumentali esempi. L’indifferenza al rapporto fra penisola e isole maggiori, oltre che alle aree più interne e scollegate dello Stivale, ne rappresenta l’altra faccia. Restituire la Sicilia all’Italia e l’Italia alla Sicilia sarebbe segno di consapevolezza geopolitica.

Lo Stretto di Sicilia è uno degli spazi più rilevanti al mondo. Non molto meno dello Stretto di Taiwan. Nel triangolo della competizione fra Stati Uniti, Cina e Russia il controllo di questo braccio di mare al centro del Mediterraneo è essenziale. Perché negli ultimi decenni il mare nostro è assurto a Medioceano: connettore fra Oceano Atlantico, marchio dell’Occidente euroamericano, e Indo-Pacifico, epicentro dello scontro sino-americano per il controllo delle rotte marittime, l’altro nome del potere globale. Oppure dobbiamo considerare turistica la visita di Xi Jinping in Sicilia, nel 2019? E casuale la scelta americana di incardinare il Muos – uno dei quattro pilastri del massimo sistema di comunicazioni e intelligence Usa nel mondo – a Niscemi, senza dimenticare le strutture di Sigonella e Pantelleria? I turchi e i russi della Wagner si sono acquartierati sul lato africano dello Stretto – Tripolitania e Cirenaica – per spirito di avventura? I cavi sottomarini transcontinentali della Rete, possibile bersaglio di guerra, corrono solo per caso nelle acque sicule?

L’ultima volta che l’Italia è stata invasa lo sbarco è avvenuto in Sicilia. Di lì americani e inglesi hanno puntato al cuore d’Europa. Per fortuna i conquistatori sono stati anche liberatori. Con quello sbarco sono state poste le premesse della Repubblica Italiana. Oggi la principale rotta migratoria passa per quello Stretto e per le isole italiane che ne marcano i passaggi. I progetti cinesi di via della seta marittima, come qualsiasi commercio transoceanico, considerano essenziale il transito tra Sicilia e Nordafrica. Lo stesso vale per il progetto turco di Patria Blu, che mira a evolvere la potenza anatolica in impero medioceanico. Contro il quale uno dei nostri principali alleati, la Francia, è da tempo mobilitato, mentre noi facemmo finta fosse caduta la linea quando da Tripoli un governetto da Roma insediato ci chiese di essere protetto. Sicché disperato si rivolse ai turchi, dalle linee attive.

Al netto di ogni altra considerazione, abbandonare la Sicilia e con essa il Sud in paurosa decrescita demografica a sé stessi e all’influenza di potenze non necessariamente benevole significa disfare l’Italia. Puntare sul ponte, sull’espansione dei porti siciliani (Augusta su tutti) e sull’alta velocità da Bolzano a Trapani, oltre che sulla più incisiva presenza della Marina e delle altre Forze armate nelle acque da cui dipende lo Stivale povero di materie prime e votato ai commerci esteri, è minimo sindacale per non perdere faccia e patria. Qualcuno dirà: ma è terra di mafie. Dunque non dovremmo far nulla perché le mafie sono dappertutto. Le grandi infrastrutture sono il segno che lo Stato c’è e la nazione pure. Rinunciarvi significa che l’uno e l’altra non hanno senso.

 

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