Alberto Mattioli La Stampa 8 dicembre 2022
Destra all’Opera: mai visto tanto governo a una prima
«Spero che l’abito sia all’altezza» dice Meloni arrivando al teatro vestita in Armani blu notte, poi si fa un selfie con l’orchestra
«Spero che l’abito sia all’altezza delle aspettative. Sono incuriosita, è la mia prima volta», sorride Giorgia Meloni a favor di telecamera nel foyer della Scala, e scattano subito reminiscenze operistiche: ecco la giovin principiante di Da Ponte oppure, per restare al Boris Godunov di Musorsgkij, una zarina per l’opera su uno zar. Nella frase c’è tutto il sapore della prima «prima» della destra al potere, un frullato di orgoglio, emozione e preoccupazione per essere entrati finalmente nel salotto buono, e dall’ingresso principale. I barbari hanno espugnato il Tempio e si capisce che intendono restarci, con una disinvoltura un po’ impacciata però sorridente. In platea, la già deprecata élite della Ztl non sembra ostile: un’educata indifferenza magari incuriosita ma non negativa, e in ogni caso senza contestazioni, mentre gli applausi sono tutti per Sergio Mattarella. L’abito scelto dalla premier, del resto, è un Armani blu con le spalle scoperte, che fa sobrietà chic molto milanese, e va benissimo. È con il compagno, Andrea Giambruno: «Ogni tanto cerchiamo di frequentarci». Fra le due muraglie di fotografi, nella tonnara del foyer, i suoi sembrano tutti soddisfattissimi. Viene in mente Leone X Medici, quello che diventò Papa dicendo: «Dio ci ha dato il pontificato, godiamocelo». E infatti. Mai visti o quasi risalire da Roma con orgogliosa sicurezza tanti nuovi potenti: già è inusuale che il presidente del Consiglio venga alla Scala se c’è quello della Repubblica (unico precedente a memoria di cronista nel 2011, con l’accoppiata Napolitano-Monti), ma poi sono arrivati anche quello del Senato, Ignazio La Russa, peraltro milanese, e quattro-ministri-quattro, Gennaro Sangiuliano, Elisabetta Casellati, Anna Maria Bernini e Adolfo Urso.
Visto che è a Milano anche la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, il palco reale risulta affollato come la metropolitana all’ora di punta. Alla fine, il cerimoniale trova la soluzione: al centro ovviamente Mattarella con la figlia Laura, sempre molto signora, scusate la parolaccia; alla loro destra, von der Leyen e il sindaco Beppe Sala padrone di casa; a sinistra, La Russa e, appunto, Meloni. Tutti sorridenti. E dire che c’era stato un momento di panico last minute quando si è scoperto che il rubinetto della toilette presidenziale non funzionava, problema pare risolto in un baleno dalle sempre affidabili maestranze scaligere. Sta di fatto che tante erano le presenze istituzionali che è stato dilatato l’intervallo perché tutti potessero andare nei camerini per le felicitazioni di rito agli artisti, da Riccardo Chailly in giù: 40 minuti, un’eternità, però apprezzata come occasione di parata in un foyer abbastanza preoccupato per Musorgskij. E qui, meravigliosi due reperti assiro-milanesi che alla prima battuta del coro si sono voltati l’uno verso l’altra esclamando all’unisono: «Ma è in russo!». Eh, già.
La star delle prime della Scala, non certo a partire da questa, è però Mattarella. Quest’anno l’applausometro ha segnato poco più di quattro minuti, meno dell’anno passato, certo, ma stavolta non c’era bisogno di chiedere il bis, insomma il secondo mandato. E poi è stato lui a far cessare l’ovazione indicando che si poteva attaccare con gli Inni. Si sono sentite anche le solite urla indistinte, indecifrabili perché, com’è noto, non ci sono più le voci di una volta, nemmeno fra i loggionisti: inconfondibili però un paio di «Grazie, Presidente!» a pieni polmoni. Quanto a Giorgia, appariva contenta e anche cantante in «Fratelli d’Italia», insolitamente accennato anche in platea, sarà il nuovo clima sovranista. Silenzio invece sull’Inno europeo in omaggio a von der Leyen, a sua volta elegante in un lungo blu notte con paillettes di stilista ignoto, perché il nome ha candidamente ammesso di non ricordarselo.
Meloni ha parlato sulla passerella iniziale. Poche parole sulla decisione di scegliere proprio un’opera russa (presa peraltro ben prima dell’operazione militare speciale), con le conseguenti, pesanti proteste ucraine: «Conoscete la mia posizione sul conflitto, ma penso che la cultura sia un’altra cosa e che non bisogna fare l’errore di mescolare dimensioni diverse. Noi non ce l’abbiamo con il popolo russo, con la storia russa, ma con le scelte di chi ha deciso di invadere una nazione sovrana». Anche qui, sintonia con Mattarella che, pranzando in giornata con von der Leyen, aveva spiegato l’ovvio, cioè che «la grande cultura russa è parte integrante della cultura europea. È un elemento che non si può cancellare, mentre la responsabilità della guerra va attribuita al governo di quel Paese e non certo al popolo russo o alla sua cultura».
Per essere una debuttante, comunque, Meloni è assai disinvolta. Va a salutare Chailly, chiede dove si può fumare, le spiegano che alla Scala accendere una sigaretta è come bestemmiare in chiesa e se ne va, sola soletta, a fumare in cortile. Poi si fa un selfie con l’orchestra, incassa quello di un fan che le urla «sei la migliore del mondo» e alla fine approva lo spettacolo: «Un’opera avvincente, e non era facile». Sala, sobriamente meneghino, faceva intanto notare che nel palco reale del «suo» teatro c’erano «due delle sette donne più potenti del mondo» e che anche von der Leyen era rimasta molto colpita dal «tributo» a Mattarella. Al quale i sindacati hanno consegnato una lettera contro i tagli alla cultura, alla Scala perfettamente bipartisan fra Comune di centrosinistra e Regione di centrodestra (però recuperabili, annuncia il governatore Fontana). Quanto alle temutissime contestazioni, non ci sono state, o meglio ci sono state fuori dal teatro, dietro le transenne che ogni anno vengono piazzate più lontane dalla Scala e dagli happy few. Qui hanno sfilato i centri sociali e una ventina di ucraini con cartelli contro Putin e il basso Ildar Abdrazakov, l’ipercarismatico Boris, attaccato come «solista del regime». Ma il paventato sabotaggio dentro il teatro non c’è stato. Così in sala, tredici minuti di applausi e incasso di due milioni e mezzo a parte, tutta l’attenzione è stata per la strana coppia Mattarella-Meloni. Ma «siamo in democrazia, e va benissimo così», chiosa saggia la senatrice Liliana Segre.