Il teatro in cui si specchia la nostra grande bellezza

Stefano Massini La Repubblica 8 dicembre 2022
Siamo tutti scaligeri Il teatro in cui si specchia la nostra grande bellezza
Siamo tutti scaligeri, anche senza saperlo, anche senza volerlo. Così come il Colosseo e gli Uffizi non sono solo di Roma e Firenze, ma patrimoni e simboli di tutta l’Italia, così il Teatro alla Scala, ad ogni replica, è come se vedesse seduti in platea 59 milioni di italiani.

 

 

Tutti, lo ripeto, senza eccezioni, dal pensionato di Trapani al bambino di Ventimiglia, dalla maestra di Otranto al boscaiolo del Tarvisio, dal melomane più raffinato fino all’adolescente che scarica trap da Spotify e inarca il ciglio se gli chiedi chi fosse Donizetti. Ognuno di noi, sul documento di identità, porta scritto che è cittadino italiano? Manca un aggettivo, appunto: scaligero.
Manca ma è implicito. È bene a cadenza regolare ricordarcelo, non fosse altro perché la tutela delle eccellenze è un dovere essenziale, in quest’epoca di sbrigativi livellamenti, in cui vige la ferale convinzione che la mediocrità sia addentellato (se non presupposto) della democrazia, e dunque si procede allegramente a spianare con la ruspa ogni eminenza. Oltre ad essere un vandalico spregio, è altresì (e soprattutto) un insulto alla nostra stessa identità, parola abusatissima e inflazionata, buona ormai per ogni uso tranne quello veramente necessario. Per spiegarne il paradigma, vado un attimo indietro con la memoria, e vi porto con me in un piccolo ricordo all’apparenza irrilevante: il sottoscritto era un ragazzo di venticinque anni quando entrò per la prima volta alla Scala, al seguito di Luca Ronconi di cui in quei giorni faceva l’assistente ospite al Piccolo. Fu in quell’occasione che davanti a un distributore di caffè ebbi il casuale incontro con una giovane soprano asiatica, mia coetanea, di cui mi sorprese il perfetto eloquio in italiano. Quando sorridendo glielo rivelai, mi squadrò con somma meraviglia, scandendo che “se vuoi essere una cantante lirica internazionale, il primo requisito è imparare l’italiano”.
Si tratta di un aneddoto semplicissimo, ma di inequivocabile oggettività, perché la nostra lingua, in ogni altro ambito professionale schiacciata dall’inglese e da altri idiomi ben più diffusi, assume viceversa l’inflessibile diktat di una condizione imprescindibile, appena parliamo di Verdi, di Puccini, di Mascagni, e via elencando. Ecco perché dicevo che nelle poltrone della Scala sediamo idealmente tutti, ecco perché quel teatro, fra tanti busti in marmo e lapidi commemorative, porta in realtà scritti sulle pareti i nomi di ogni cittadino italiano vivente e defunto, la cui vita inconsapevolmente è stata di fatto illuminata, innanzi al mondo intero, da questo tempio di bellezza.
La Scala sigilla in sé un paradosso, declinando quel prestigio di essere italiani che gli italiani stessi screditano, ma che stavolta è contraddetto dai fatti. Ne elenco alcuni. Nel 1878, all’Esposizione Universale di Parigi, mentre si ponevano le premesse del futuro, con Graham Bell che presentava il brevetto del telefono e Thomas Edison quello del fonografo, chi fu chiamato a suonare davanti al mondo? I musicisti della Scala. Saltiamo al 1972, all’edizione drammatica delle Olimpiadi di Monaco in cui Settembre Nero massacrò gli atleti israeliani: anche in quel caso risuonavano le note della Scala. Perfino quando gli Stati Uniti celebrarono i duecento anni dalla loro fondazione, sembrò più che ovvio invitare oltreoceano la Scala. E così la lista potrebbe continuare infinita, in un susseguirsi di consessi internazionali e ricorrenze planetarie in cui il nostro Paese, attraverso questa istituzione, ha ribadito la sua perduta vocazione di culla della bellezza, delle arti, del senso stesso di civiltà.
Ogni volta che a inizio dicembre si rinnova il rito dell’apertura scaligera, si celebra il rifiorire di una creatività italiana che in questo campo, finalmente, non ci vede né vassalli né comprimari di nessuno, ed è tristemente ridicolo che coniugare quest’evidenza in termini di orgoglio ti venga subito addebitato come un fallo retorico. Non si faccia l’errore di concepire l’evento come appannaggio di una élite meneghina in cerca di flash, perché quell’eleganza è in fondo la stessa di chi indossava l’abito migliore dell’armadio per recarsi a messa la domenica, per andare a votare e per onorare le feste comandate, in una forma antica e saggia di ossequio per ciò che l’occasione rappresentava, all’interno del corpo sociale. E se in genere tendiamo a demolire ogni baluardo di questo tipo, in nome di una totale destrutturazione degli obblighi sociali, varrà la pena viceversa di riaffermare che una comunità esiste in primo luogo per ciò che rispetta, per ciò che onora, per ciò che decide di salvare, e solo lì si connota e si ritrova come le antiche tribù facevano intorno al fuoco.
L’Atene di Pericle si sedeva tutta quanta nel suo anfiteatro per assistere ai cicli tragici, e lì si racchiudeva il senso della polis. Non diversamente, la festa dicembrina della Scala incarna il culto della musica, del canto, dell’opera, ovvero di quell’immenso secolare patrimonio italiano intorno al quale è bellissimo, oltre che giusto, riscoprirci comunità.

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