Veronica De Romanis La Stampa 11 dicembre 2022
I soldi a chi non ne ha bisogno, giusto correggere il Bonus diciottenni
Il governo Meloni intende cancellare il Bonus cultura per i 18enni. La misura, introdotta da Matteo Renzi nel 2016, consente a tutti i maggiorenni (ossia i cittadini che votano, dettaglio non secondario) di ottenere 500 euro da investire principalmente in libri. Il costo, ad oggi, è stato di un oltre un miliardo.
Come prevedibile, la decisione ha sollevato forti polemiche dalle file delle opposizioni. In molti si sono affrettati a difendere il provvedimento. A cominciare dall’ex Ministro della Cultura, Dario Franceschini. In un’intervista su questo giornale, ha spiegato che il provvedimento va mantenuto. A suo avviso «è stato un successo»: l’industria della cultura ne ha tratto un vantaggio significativo. E poi, la natura universale del bonus ha consentito a tutti i ragazzi di poter leggere di più. Ne hanno beneficiato anche quelli che non ne avevamo bisogno dal punto di vista economico. Del resto, come ha precisato Franceschini, «non è detto che le famiglie ricche spendano soldi per i libri».
La posizione dell’onorevole – condivisa praticamente dall’intero Partito Democratico e – ovviamente – da Italia Viva – appare un po’ surreale per almeno due motivi. È certamente giusto ricordare che i ricchi non necessariamente spendono in cultura. Pertanto, se lo Stato la finanzia anche per i ragazzi di questi nuclei, l’impatto in termini di innalzamento del livello culturale del Paese non può che essere positivo. Ciò che lascia (davvero) perplessi è che – nel fare questa affermazione – non si tenga conto di una variabile fondamentale: i costi. Ossia chi paga? Come tutte le misure, anche quella dei 500 euro è finanziata con le tasse dei contribuenti, quindi anche quelli medi e meno abbienti. Oppure con maggiore indebitamento che ricadrà sulle spalle dei ragazzi di oggi, quindi anche quelli svantaggiati. Si crea, così, un meccanismo perverso in cui il bonus (quando è universale) viene elargito a chi non ne ha bisogno a spese di chi è meno fortunato. Le risorse pubbliche, come dovrebbe essere noto a chi è stato a lungo al governo, sono scarse e limitate.
Selezionare i beneficiari dovrebbe essere una priorità, soprattutto in una fase come quelle a attuale. E, qui veniamo al secondo punto, quello del “successo” della misura. È evidente (e ci mancherebbe) che quando un esecutivo distribuisce risorse a favore di un determinato settore, quest’ultimo si sviluppa. Lo abbiamo visto con il bonus 110 per cento. Oppure con quello “facciate”, voluto proprio da Franceschini. Il metodo “metto soldi a disposizione per tutti così il settore cresce” ha sicuramente il pregio di avere un impatto positivo sull’economia del Paese. Ha, tuttavia, il grande limite di non tenere in considerazione una serie di variabili fondamentali per definire in maniera appropriata il “successo” di una scelta di politica economica. A cominciare dal costo opportunità. Ossia l’analisi – ex-ante – che mostra quali potrebbero essere gli utilizzi alternativi delle risorse impiegate.
Basterebbe porsi domande molto semplici per realizzare che – troppo spesso -, l’elargizione dei bonus avviene in base a logiche prettamente elettorali. Ad esempio, con i soldi dati ai 18enni ricchi quante scuole poteva non essere ammodernate nelle regioni italiane più sfavorite? Quanti asili nido si potevano costruire? Oppure quale delle misure alternative produce l’effetto maggiore per i giovani, soprattutto per quelli svantaggiati? Attenzione, qui non si tratta di benaltrismo. Ma di consapevolezza dell’esistenza di un vincolo di bilancio stringente e di disuguaglianze crescenti. Speriamo che almeno il governo Meloni nel rimodulare il bonus ne tenga conto.