Il movimento che segnò gli anni ’60 e ’70

David Romoli il Riformista 11 dicembre 2022
Il movimento che segnò gli anni ’60 e ’70
La storia di Lotta Continua e dei figli di Sofri: il sogno rivoluzione e la chiusura ‘grazie’ alle donne

 

 

Se per raccontare il Movimento italiano degli anni ‘60-70, che non fu un’onda irruenta ma un evento storico, si dovesse prendere una parte per il tutto, quella parte non potrebbe essere che Lotta Continua. Non solo e forse non tanto perché fu l’organizzazione più forte e diffusa dell’intera sinistra rivoluzionaria ma perché rappresentò, per così dire, la “medietà” del movimento. C’era dentro di tutto, cattolici e maoisti, libertari e ultime leve del bolscevismo, comunisti ed eredi dell’anarco-sindacalismo.

La storia di Lc non è solo quella di un’organizzazione rivoluzionaria: è l’istantanea di una intera generazione politica, con le sue luci e le sue ombre, i suoi successi e le sue amare sconfitte, le sue utopie e le sue disillusioni. E tuttavia, nonostante il gruppo fosse così composito e diversificato al proprio interno, i militanti di Lotta Continua erano animati da un fortissimo spirito di appartenenza che è sopravvissuto negli anni e nei decenni, un elemento costitutivo dell’identità che è ancora fortissimo, nonostante i percorsi individuali diversi e a volte opposti, negli invecchiati ragazzi di allora. La leggenda della “lobby di Lotta continua” nasce di qui.
La parabola di Lc è raccontata in una docuserie in 4 puntate da pochi giorni disponibile su Raiplay, parzialmente ispirata alla storia del gruppo scritta nel 1998 da Aldo Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, diretta da Tony Saccucci, vincitore di un nastro d’argento per il docufilm La prima donna, scritta dallo stesso regista con Andrea De Martino ed Eleonora Orlandi. Sono puntate brevi, una quarantina di minuti ciascuna. Non aspirano all’esaustività storica ma a restituire le emozioni che animarono quei giovani o giovanissimi militanti allora e i sentimenti con cui guardano oggi a quell’epoca e a una formazione più umana che politica. Un excursus a passo di corsa che non si sofferma sui dettagli, tralascia anzi spesso date importanti nel percorso dell’organizzazione, sceglie di centrare l’obiettivo sull’animo dei militanti invece che sul rosario di riunioni, discussioni dotte, manifestazioni di piazza, battaglie di strada che costellarono per una decina d’anni le vite di decine di migliaia di giovani.

La prima puntata della serie, dedicata al prologo nella primavera del ‘69, prima della nascita dell’organizzazione alla fine dell’estate, è non solo la più riuscita della serie ma una delle cose migliori che siano mai state prodotte su quell’epoca. Gli autori mettono da parte le cronache delle lotte studentesche di palazzo Campana a Torino e si concentrano su ciò che davvero fece la differenza tra il caso italiano e quelli dei tanti altri Paesi in cui il ‘68 durò un anno e non, come da noi, un decennio: la rivolta operaia. Imprevista anche se prevedibile, improvvisa e incendiaria, la rivolta dei giovani operai partita dalla Fiat Mirafiori nell’aprile 1969, destinata a dilagare ovunque, fu il vero elemento deflagrante che trasformò la rivolta studentesca, ma già con scintille che anticipavano l’esplosione operaia, in quelli che Erri De Luca, allora capo del servizio d’ordine di Lc, definisce nel documentario “anni non di piombo ma di rame”, perché veicolavano e diffondevano ovunque energia ribelle.

Non se ne parla mai, o quasi mai. Saccucci invece, adoperando alla perfezione il materiale visivo d’epoca, racconta la Torino degli operai immigrati, discriminati, mal pagati, soggetti a una disciplina ferrea, costretti a vivere in baracche costruite sui tetti della città sabauda. Coglie così il vero punto di contatto che permise l’incontro tra operai e studenti: una comune ansia di libertà, intesa in un senso che rompeva le barriera anguste della concezione liberale, diventava libertà dall’autorità oppressiva ma anche dal bisogno, dalla miseria, dalla condizione subordinata imposta come un destino, dai vincoli dell’appartenenza di classe che condannavano sia i ragazzi della borghesia che quelli arrivati dal Sud con la valigia di cartone in spalla. Quella sete di libertà, dominante nel biennio 1968-69, sarebbe stata poi in parte soffocata dal tentativo dei gruppi extraparlamentari di trasformarsi in copie quasi sempre caricaturali dei partiti comunisti tradizionali, senza però mai essere cancellata, senza sparire e in Lc più che altrove, almeno fino al fallimentare tentativo di trasformarsi in partito istituzionale e leninista, alla fine della sua parabola, nel 1975.
La nascita di Lc nel fuoco dell’autunno caldo, la sua capacità di espandersi sostenendo e assimilando le esperienze di lotta e mobilitazione più disparate, soldati, detenuti, disoccupati, famiglie sfrattate, pastori, persino contrabbandieri, è sintetizzata, sin troppo, nella seconda puntata. C’è quasi tutto, ma spesso solo per accenni. Manca qualcosa, come la scelta in controtendenza con quasi tutto il resto della sinistra istituzionale e rivoluzionaria di partecipare alla sollevazione di Reggio Calabria del 1970, la più lunga rivolta urbana in tutto l’Occidente nel dopoguerra, gestita dai neofascisti per l’insipienza della sinistra ma alla quale Adriano Sofri, leader indiscusso e carismatico del gruppo, scelse di partecipare, come sua abitudine trasferendosi di persona nella città insorta. Un po’ manca anche questo: di Sofri si parla molto, del suo carisma, della sua leggendaria arroganza, del suo magnetismo e della sua presunzione. Non a sufficienza della eccezionale capacità di dirigente e di organizzatore, che in buona parte fece la differenza e portò all’affermazione di Lc come principale gruppo della sinistra rivoluzionaria.

Il punto debole della serie, preso di petto nella terza puntata centrata sull’omicidio Calabresi ma presente in forma strisciante sempre, è il rapporto con la violenza. In tutta evidenza quel nodo costituisce ancora oggi, per buona parte dei militanti di allora, un irrisolto che trapela nello sguardo contraddittorio rivolto a quegli anni, biasimando quasi con vergogna le “cose orrende che dicevamo” e allo stesso tempo rivendicandone per intero il valore politico e umano, il tentativo nobile di cambiare il mondo, l’impareggiabile educazione sentimentale. L’esito, con eccezioni come lo stesso De Luca o Paolo Liguori, è una pura e semplice rimozione operata rimodellando la propria stessa biografia, riducendo la violenza a una reazione difensiva imposta dalla violenza dei fascisti, dalla brutalità dello Stato, dallo shock di piazza Fontana che molti si ostinano a definire “la perdita dell’innocenza”. Oppure limitandola all’incontrollabilità di quelli, pochi o tanti che fossero, che amavano la violenza in quanto tale.

Forse umanamente comprensibile da parte di chi ha radicalmente mutato la propria posizione nei confronti della violenza politica, si tratta comunque di una riscrittura e di una rimozione che operano una falsificazione storica alla quale non sfugge del tutto neppure questa serie. Fa di un’organizzazione rivoluzionaria che credeva nella necessità della violenza e che la violenza, pur senza mai degenerare nel terrorismo, praticava più di molti altri gruppi, un’associazione giovanile di anime belle dedite al miglioramento della società e non, come invece era, alla sua sovversione radicale e violenta. Non è così. La nascita di Prima linea, che di Lc fu una sorta di filiazione come del resto anche i Nap, non è una coincidenza.

Questa reticenza che scivola nella negazione offusca un po’ anche la puntata finale, quella sullo scioglimento del gruppo deciso da Sofri nel congresso di Rimini del 1976. Lc aveva tentato di battere la via della istituzionalizzazione, partecipando alle elezioni di giugno con il cartello Democrazia proletaria, e aveva fallito. Il verdetto degli elettori era stato impietoso e comprensibile: Lc era stata una formidabile struttura di movimento per 7 anni, non era e non poteva diventare un partitino. A disintegrare il gruppo fu certamente la rivolta delle donne, che bersagliarono un’organizzazione come tutta la sinistra intrisa di sessismo e maschilismo senza neppure accorgersene prima che le donne aprissero gli occhi anche ai maschi con le cattive.

Ma a far pendere la bilancia a favore dello scioglimento fu in misura altrettanto decisiva l’impossibilità per la leadership di frenare ancora quanti nel gruppo volevano passare alla lotta armata, nelle organizzazioni clandestine o nell’Autonomia. «Sofri – sintetizza Paolo Liguori, forse l’unico a chiamare le cose con il loro nome tra gli intervistati – capì perfettamente la natura del conflitto tra uomini e donne. Però capì anche la natura del conflitto interno con un’ala pericolosamente violenta e fuori controllo: usò la critica spietata e durissima delle donne anche come “onorevole soluzione” per chiudere». Se, come è giusto fare, si considerano percorsi dei giovani militanti di Lc negli anni della rivolta e nei decenni seguenti come spaccato esemplare di una generazione politica e del suo percorso, anche quella rimozione figura in postazione centrale, eminente e significativa.

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