Giovanni Orsina La Stampa 12 dicembre 2022
Nuova politica post populista
Si comincia a parlare di post-populismo: il Censis ha usato quest’espressione, il direttore de La Stampa Massimo Giannini l’ha ripresa. Ma stiamo davvero uscendo dalla stagione del cosiddetto populismo?
Se sì, che cos’ha lasciato dietro di sé quella stagione? E che aspetto possono avere, allora, una sinistra e una destra post-populiste?
«Se vedete andare a cammino la declinazione di una città, la mutazione di uno governo, lo augumento di uno imperio nuovo e altre cose simili», ammonisce Francesco Guicciardini, «avvertite a non vi ingannare ne’ tempi: perché e’ moti delle cose sono per sua natura e per diversi impedimenti molto più tardi che gli uomini non si immaginano». Insomma: saremmo imprudenti se dichiarassimo senz’altro superata la fase cosiddetta populista, perché gli indizi del superamento sono recenti e non del tutto univoci, e il cammino della storia più tortuoso di quel che vorremmo. Ciò detto, i segnali che rispetto a qualche anno fa l’aria stia cambiando sono piuttosto robusti, in Italia e all’estero. Quei segnali, d’altra parte, non paiono indicare tanto che l’ondata populista si sia esaurita, quanto piuttosto che abbia allagato il «Palazzo» e vi si sia installata in permanenza. Poiché i «barbari» populisti non avevano la forza di demolire l’ordine costituito ma erano pure troppo numerosi e rumorosi perché li si potesse ignorare, la vicenda – com’è stato detto, con facile profezia, in epoca non sospetta – aveva un unico esito possibile: che quei barbari fossero «romanizzati», ossia ripuliti alla bell’e meglio e integrati nei meccanismi del potere. Il Partito repubblicano americano, così, potrebbe presentare alle prossime presidenziali un candidato diverso da Donald Trump ma largamente ispirato dal trumpismo. In Francia il Rassemblement National di Marine Le Pen è stato abbondantemente «de-demonizzato», ormai, e ha conquistato un’importante rappresentanza parlamentare. In Spagna, dove si voterà nell’autunno del 2023, una coalizione di centro destra fra il Partido popular e Vox potrebbe andare al potere. E in Italia, Paese nel quale l’insurrezione populista è cominciata prima che altrove, la «romanizzazione» è giunta ormai a uno stadio assai avanzato: il Movimento 5 stelle si è ben accomodato nel Palazzo, che a sua volta si è modificato per poterlo accogliere, mentre a destra la protesta ha dato vita a un governo che coi vincoli istituzionali, europei e internazionali sta rapidamente, seppur non sempre pacificamente, scendendo a patti.
Sono queste le circostanze che la politica post-populista si trova ora a dover amministrare. Per poterle affrontare con qualche chance di successo, tuttavia, deve innanzitutto interpretare correttamente le ragioni dell’insurrezione populista. Sul populismo negli ultimi anni sono state scritte biblioteche, anche se, fra antipatie ideologiche e frenesie tassonomiche, non sempre la qualità della riflessione è stata all’altezza della quantità. Sotto quell’etichetta sono stati raggruppati fenomeni politici molto eterogenei, il cui unico vero elemento comune consiste nel punto d’origine: sono scaturiti tutti da una reazione all’accelerazione esponenziale e all’apparente sempre maggiore incontrollabilità dei processi d’integrazione del Pianeta. I movimenti di protesta che abbiamo chiamato populisti hanno rappresentato insomma una risposta alla globalizzazione e al predominio dell’ideologia globalista (globalista, non neoliberale: il neoliberalismo è solo una componente, per quanto importante, del globalismo) che ha raggiunto il suo zenit nel corso degli anni Novanta.
La reazione antiglobalista ha avuto un risvolto sociologico e uno antropologico. Sul terreno sociologico è scaturita dalla nuova divisione di classe ch’è stata creata dai processi di globalizzazione e che ha separato coloro i quali hanno pensato di potersene avvantaggiare da quanti si sono convinti invece di esserne stati penalizzati. E si è poi rivolta contro l’antropologia semplificata del globalismo, una concezione dell’essere umano che ne ha enfatizzato il sacrosanto desiderio di autonomia al costo però di trascurare tutte le altre, altrettanto sacrosante, «esigenze dell’anima» umana: l’ordine, l’ubbidienza, la responsabilità, l’uguaglianza, la gerarchia, l’onore, la punizione, la sicurezza, la proprietà collettiva, la verità, il radicamento (la lista è di Simone Weil, non di un qualche arcigno intellettuale reazionario).
Sia nella sua componente sociologica, sia, e ancor di più, in quella antropologica, l’ondata populista è scaturita in definitiva da una rivolta del piccolo contro il grande, del concreto contro l’astratto, del vicino contro il lontano, del presente contro il futuro, del mondo vissuto contro il mondo pensato. O ancora – se vogliamo ricorrere a una metafora letteraria e dirla con uno dei personaggi di Stefano d’Arrigo – del «vistocogliocchi» contro il «sentitodire». Che i migranti pagheranno le pensioni agli italiani è un sentitodire – che li si incontri sulla soglia dei supermercati col cappello in mano è un vistocogliocchi. Il rischio di default dell’Italia è un sentitodire – disoccupazione e povertà sono un vistocogliocchi. Perfino che il vaccino prevenga il Covid è un sentitodire, mentre l’inoculazione di pazienti sani è un vistocogliocchi. È fin troppo facile obiettare che dietro tutti quei sentitodire ci sono fior di demografi, economisti, virologi, che il genere umano è progredito nei millenni proprio perché ha saputo trascendere l’esperienza diretta e quotidiana degli uomini qualunque, e che, se non vorremo ascoltare gli ammonimenti degli esperti, domani cogli occhi ci toccherà vedere crisi demografiche, finanziarie, pandemiche quanto mai concrete e dolorose. L’obiezione è tanto fondata quanto vana: se gli uomini qualunque si aggrappano al mondo vissuto è perché non si fidano più dei sacerdoti del mondo pensato, siano essi scienziati, tecnici, burocrati o politici. È perché se ne sentono sociologicamente e antropologicamente non soltanto distanti, ma respinti. Se vuole avere delle chance, in conclusione, la politica post-populista deve prendere sul serio la rivolta contro il sentitodire e ripartire dal vistocogliocchi. Anche a costo di creare qualche eventuale, modesto mal di pancia a demografi, economisti e virologi. Dopodiché, quella politica può avere un segno progressista o uno conservatore, e nei due casi si troverà a dover affrontare sfide diverse con risorse differenti. Ma sulla politica post-populista progressista e su quella conservatrice torneremo presto. —
Nuova politica post populista
Giovanni Orsina La Stampa 12 dicembre 2022
Nuova politica post populista
Si comincia a parlare di post-populismo: il Censis ha usato quest’espressione, il direttore de La Stampa Massimo Giannini l’ha ripresa. Ma stiamo davvero uscendo dalla stagione del cosiddetto populismo?
Se sì, che cos’ha lasciato dietro di sé quella stagione? E che aspetto possono avere, allora, una sinistra e una destra post-populiste?
«Se vedete andare a cammino la declinazione di una città, la mutazione di uno governo, lo augumento di uno imperio nuovo e altre cose simili», ammonisce Francesco Guicciardini, «avvertite a non vi ingannare ne’ tempi: perché e’ moti delle cose sono per sua natura e per diversi impedimenti molto più tardi che gli uomini non si immaginano». Insomma: saremmo imprudenti se dichiarassimo senz’altro superata la fase cosiddetta populista, perché gli indizi del superamento sono recenti e non del tutto univoci, e il cammino della storia più tortuoso di quel che vorremmo. Ciò detto, i segnali che rispetto a qualche anno fa l’aria stia cambiando sono piuttosto robusti, in Italia e all’estero. Quei segnali, d’altra parte, non paiono indicare tanto che l’ondata populista si sia esaurita, quanto piuttosto che abbia allagato il «Palazzo» e vi si sia installata in permanenza. Poiché i «barbari» populisti non avevano la forza di demolire l’ordine costituito ma erano pure troppo numerosi e rumorosi perché li si potesse ignorare, la vicenda – com’è stato detto, con facile profezia, in epoca non sospetta – aveva un unico esito possibile: che quei barbari fossero «romanizzati», ossia ripuliti alla bell’e meglio e integrati nei meccanismi del potere. Il Partito repubblicano americano, così, potrebbe presentare alle prossime presidenziali un candidato diverso da Donald Trump ma largamente ispirato dal trumpismo. In Francia il Rassemblement National di Marine Le Pen è stato abbondantemente «de-demonizzato», ormai, e ha conquistato un’importante rappresentanza parlamentare. In Spagna, dove si voterà nell’autunno del 2023, una coalizione di centro destra fra il Partido popular e Vox potrebbe andare al potere. E in Italia, Paese nel quale l’insurrezione populista è cominciata prima che altrove, la «romanizzazione» è giunta ormai a uno stadio assai avanzato: il Movimento 5 stelle si è ben accomodato nel Palazzo, che a sua volta si è modificato per poterlo accogliere, mentre a destra la protesta ha dato vita a un governo che coi vincoli istituzionali, europei e internazionali sta rapidamente, seppur non sempre pacificamente, scendendo a patti.
Sono queste le circostanze che la politica post-populista si trova ora a dover amministrare. Per poterle affrontare con qualche chance di successo, tuttavia, deve innanzitutto interpretare correttamente le ragioni dell’insurrezione populista. Sul populismo negli ultimi anni sono state scritte biblioteche, anche se, fra antipatie ideologiche e frenesie tassonomiche, non sempre la qualità della riflessione è stata all’altezza della quantità. Sotto quell’etichetta sono stati raggruppati fenomeni politici molto eterogenei, il cui unico vero elemento comune consiste nel punto d’origine: sono scaturiti tutti da una reazione all’accelerazione esponenziale e all’apparente sempre maggiore incontrollabilità dei processi d’integrazione del Pianeta. I movimenti di protesta che abbiamo chiamato populisti hanno rappresentato insomma una risposta alla globalizzazione e al predominio dell’ideologia globalista (globalista, non neoliberale: il neoliberalismo è solo una componente, per quanto importante, del globalismo) che ha raggiunto il suo zenit nel corso degli anni Novanta.
La reazione antiglobalista ha avuto un risvolto sociologico e uno antropologico. Sul terreno sociologico è scaturita dalla nuova divisione di classe ch’è stata creata dai processi di globalizzazione e che ha separato coloro i quali hanno pensato di potersene avvantaggiare da quanti si sono convinti invece di esserne stati penalizzati. E si è poi rivolta contro l’antropologia semplificata del globalismo, una concezione dell’essere umano che ne ha enfatizzato il sacrosanto desiderio di autonomia al costo però di trascurare tutte le altre, altrettanto sacrosante, «esigenze dell’anima» umana: l’ordine, l’ubbidienza, la responsabilità, l’uguaglianza, la gerarchia, l’onore, la punizione, la sicurezza, la proprietà collettiva, la verità, il radicamento (la lista è di Simone Weil, non di un qualche arcigno intellettuale reazionario).
Sia nella sua componente sociologica, sia, e ancor di più, in quella antropologica, l’ondata populista è scaturita in definitiva da una rivolta del piccolo contro il grande, del concreto contro l’astratto, del vicino contro il lontano, del presente contro il futuro, del mondo vissuto contro il mondo pensato. O ancora – se vogliamo ricorrere a una metafora letteraria e dirla con uno dei personaggi di Stefano d’Arrigo – del «vistocogliocchi» contro il «sentitodire». Che i migranti pagheranno le pensioni agli italiani è un sentitodire – che li si incontri sulla soglia dei supermercati col cappello in mano è un vistocogliocchi. Il rischio di default dell’Italia è un sentitodire – disoccupazione e povertà sono un vistocogliocchi. Perfino che il vaccino prevenga il Covid è un sentitodire, mentre l’inoculazione di pazienti sani è un vistocogliocchi. È fin troppo facile obiettare che dietro tutti quei sentitodire ci sono fior di demografi, economisti, virologi, che il genere umano è progredito nei millenni proprio perché ha saputo trascendere l’esperienza diretta e quotidiana degli uomini qualunque, e che, se non vorremo ascoltare gli ammonimenti degli esperti, domani cogli occhi ci toccherà vedere crisi demografiche, finanziarie, pandemiche quanto mai concrete e dolorose. L’obiezione è tanto fondata quanto vana: se gli uomini qualunque si aggrappano al mondo vissuto è perché non si fidano più dei sacerdoti del mondo pensato, siano essi scienziati, tecnici, burocrati o politici. È perché se ne sentono sociologicamente e antropologicamente non soltanto distanti, ma respinti. Se vuole avere delle chance, in conclusione, la politica post-populista deve prendere sul serio la rivolta contro il sentitodire e ripartire dal vistocogliocchi. Anche a costo di creare qualche eventuale, modesto mal di pancia a demografi, economisti e virologi. Dopodiché, quella politica può avere un segno progressista o uno conservatore, e nei due casi si troverà a dover affrontare sfide diverse con risorse differenti. Ma sulla politica post-populista progressista e su quella conservatrice torneremo presto. —