«Emanuela Orlandi uccisa da Aliz». Un messaggio in codice del 1983

Fabrizio Peronaci Corriere della Sera 15 dicembre 2022
«Emanuela Orlandi uccisa da Aliz». Un messaggio in codice del 1983 (mai decifrato) accusò la banda della Magliana
Ottobre ’83, i rapitori all’Ansa: «Aliz è stato orrendo». “Aliz”, anagramma incompleto di “Lazio”, riporta alla squadra di Bruno Giordano, ex marito della Minardi, poi amante del boss De Pedis. Gli altri indizi su Gelli e il covo di Monteverde

 

La banda della Magliana fu chiamata in causa con un comunicato che accusava la gang del sequestro di Emanuela Orlandi già pochi mesi dopo la scomparsa della quindicenne, ben prima della confessione di Sabrina Minardi (2008). Un testo cifrato, non esplicito, contenente messaggi in codice. Che però, riletto oggi, non era poi così difficile da interpretare: sarebbe bastato cogliere il senso di alcune allusioni, notare certi giochi di parole e, molto probabilmente, il giallo Orlandi si sarebbe risolto in fretta, senza diventare un cold case infinito, il più inquietante della storia italiana.
La novità è sorprendente, un po’ come la lettera rubata di Edgar Allan Poe: era lì sotto gli occhi di tutti, ma nessuno l’ha mai notata.

A quasi 40 anni dalla sparizione della “ragazza con la fascetta”, dalle migliaia di atti custoditi negli armadi blindati della procura di Roma (dopo l’archiviazione del 2015) spunta un documento che ha tutta l’aria di essere risolutivo. Si tratta di un comunicato di rivendicazione del sequestro della figlia del messo pontificio di Wojtyla che i rapitori inviarono all’Ansa di Milano il 17 ottobre 1983. Il testo, all’apparenza bislacco e inverosimile, fin dalle prime righe tirava in ballo un misterioso personaggio: “Aliz”. L’accusa era esplicita: il rapitore-assassino era lui. Vero, falso? Un depistaggio privo di fondamento? Gli investigatori considerarono la lettera inattendibile, anche a causa dello stile ridondante, ma i recenti sviluppi – a cominciare dall’accresciuta credibilità di Marco Accetti (dopo la scoperta della tomba vuota di Katy Skerl per il furto della bara, da lui preannunciato con largo anticipo) – sembrano dire il contrario. In quelle due paginette, in realtà, sarebbero indicati sia gli esecutori sia qualche mandante del crimine portato a termine contro due ragazzine innocenti: la banda della Magliana, appunto.

Le due confessioni-denuncia
Una premessa è necessario per inquadrare la novità. Fino ad oggi, “Renatino” De Pedis e i suoi sodali della gang affaristico-criminale più potente di Roma erano entrati nel mistero di Emanuela e della coetanea Mirella Gregori (sparite rispettivamente il 22 giugno e il 7 maggio 1983) non sulla base di riscontri collocati all’epoca dei fatti, bensì grazie a due testimonianze rilevanti ma controverse, giunte con grande ritardo, oltre un quarto di secolo dopo: la prima persona a fare il nome del boss testaccino fu nel 2008 la sua ex amante, Sabrina Minardi (nonché ex moglie del calciatore Bruno Giordano), e la seconda Marco Accetti, il fotografo oggi 67enne che nel 2013, oltre al flauto riconosciuto dalla famiglia Orlandi, consegnò ai magistrati un voluminoso memoriale. Due versioni dettagliate e in gran parte sovrapponibili (qui la ricostruzione minuto per minuto della scomparsa di Emanuela, qui quella speculare su Mirella), ma non confortate (sinora) da ulteriori elementi.

Le pressioni sul Quirinale
Ebbene, quel riscontro che mancava adesso c’è. Vediamola, dunque, la prova “resuscitata”, collocandola nel contesto in cui emerse. Siamo a metà ottobre 1983, in una fase di altissima tensione politico-istituzionale attorno al caso Orlandi-Gregori, e nel pieno delle trattative, che coinvolgono il Quirinale, per la concessione della grazia ad Agca, il turco che ha sparato al Papa due anni prima. Il provvedimento di clemenza è stato richiesto per tutta l’estate dal cosiddetto “Amerikano” (il telefonista la cui voce corrisponde a quella di Accetti) e dal Fronte Turkesh, misteriosa organizzazione che, nei comunicati spediti a partire da agosto, ha dato prova di conoscere dettagli inediti su Emanuela Orlandi (alcuni nei sulla schiena, il fastidio per il latte, la sua presenza in una certa chiesa il 22 aprile precedente, fatto noto solo alla famiglia, il che dimostra precedenti pedinamenti, ecc). L’ipotesi è che i sequestratori – per accrescere la propria capacità di intimidazione – si siano “duplicati” a uso mediatico in due fronti, ribattezzati dalla stampa “falchi” (il primo) e “colombe” (il secondo).

Il comunicato Turkesh
È in questo contesto, quindi, che il 17 ottobre 1983 si fa nuovamente vivo il Fronte Turkesh. Una giornata al cardiopalma: in mattinata l’avvocato Gennaro Egidio (legale di entrambe le famiglie) è stato convocato al Quirinale, dove il segretario generale, Antonio Maccanico, lo ha informato che il presidente Pertini non ha ritenuto opportuno rendere noto il concordato appello ai rapitori di Mirella e di Emanuela (lo farà il 20 dello stesso mese). Attorno alle 14, però, nel clima già teso si innesta una notizia freschissima: alla sede Ansa di Milano è appena arrivato il quinto messaggio del Turkesh, una busta “espresso” imbucata a Bari. La lettera è firmata da una sorta di pentito, tal “Dragan di Slavia”, e sul bordo della seconda facciata appaiono le parole “morte” e “Sergio”. La prima deduzione, a posteriori, riguarda il nome di battesimo: una trentina d’anni dopo, infatti, nell’ambito dell’inchiesta 2008-2015 sarà iscritto sul registro degli indagati proprio un certo Sergio, di cognome Virtù, autista di De Pedis, accusandolo di aver partecipato all’operazione Orlandi assieme ad altri due compici della Magliana, alla Minardi, allo stesso Accetti e al prete amico di “Renatino”, don Pietro Vergari. E vediamo ora cosa c’era scritto nel comunicato: 33 righe in stampatello, solo all’apparenza sconclusionate e deliranti.
Il calciatore Spinozzi
Dragan esordisce annunciando che “Aliz”, nome già fatto in una telefonata giunta a inizio settembre all’avvocato Egidio, ha ucciso l’ostaggio: «Emanuela era brava ragazza, noi la volevamo salvare, ma voi siete stati cattivi, lei non meritava. Suo corpo forse non lo trovate più, ma è Aliz che è stato orrendo, lui non può essere un Turkesh, noi Turkesh non uccidiamo, noi buoni». A seguire, il presunto Dragan rivela di essere in partenza per la Tunisia o l’Algeria con Mirella per associarsi a tal “Uhrush” e rivolge una domanda del tutto campata in aria: «Perché non interrogare giocatore calcistico di Lazio Spinozzi? È stato lui a darci Emanuela e a fornirci primo rifugio”. Cosa c’entra il calciatore? Nulla, naturalmente. Arcadio Spinozzi, all’epoca roccioso terzino biancoceleste, militante in serie A e compagno di squadra dei più famosi D’Amico, Manfredonia, Giordano, niente aveva a che fare con il sequestro Orlandi, poveretto. Nel leggere il suo nome associato al giallo di cui parlava tutta Italia, il giocatore trasecolò, si arrabbiò moltissimo. Ma chiamarlo in causa, con il senno del poi, ripensando al successivo coinvolgimento di Sergio Virtù, un senso poteva averlo…

I rimandi alla “mala” romana
Avanti, non è il solo elemento nuovo. Le indagini di un quarto di secolo dopo porteranno infatti alla scoperta di un appartamento a Monteverde Nuovo, in via Pignatelli, di proprietà di una donna legata ad ambienti criminali, munito di un cunicolo segreto che gli stessi inquirenti non escluderanno possa essere stato il “carcere” di Emanuela. Nel rivedere gli atti della prima inchiesta (1983-1997), inoltre, i magistrati scoveranno altri rimandi a milieu malavitosi sfuggiti ai colleghi: il gergo “sporco”, marcatamente romanesco, del secondo telefonista, “Mario” (la cui voce somiglia moltissimo a quella di Accetti), interpretabile come un tentativo di dare una connotazione locale al rapimento Orlandi; l’allarme (mai fino in fondo chiarito) di un testimone che nell’estate 1983 riferì di aver visto due giovani mentre lanciavano una 127 rossa nel Tevere (guarda caso “all’altezza del ponte della Magliana”); e infine l’evocazione, in un’altra telefonata alla famiglia, di un ristorante del litorale frequentato da malacarne (“Pippo l’Abruzzese”, a Torvaianica). I riferimenti alla storica gang, insomma, non erano mancati, nella prima fase del duplice giallo.

Come una sciarada: da Aliz a De Pedis
Siamo così giunti al punto, all’indizio numero 1 in forma di codice. Cosa aveva scritto “Dragan” nel comunicato Turkesh che tolse il sonno all’incolpevole Spinozzi? Che il responsabile del sequestro e dell’omicidio Orlandi era un certo “Aliz”. Nome stranissimo. Cosa avrebbe potuto voler dire? Le quattro lettere rimandavano forse a un’ “entità” nascosta, con la quale dialogare sotterraneamente?

Già: una “verità” occultata ma latente? Negli anni del terrorismo e della Guerra Fredda, d’altronde, le operazioni spionistiche, a metà strada tra apparati criminali e servizi deviati, funzionavano così. E allora? Allora eccola, la soluzione possibile: pensando anche al codice 158 (stessi numeri di 5-81, mese e anno dell’attentato al Papa) scelto dall’Amerikano per telefonare in Vaticano, la chiave, molto semplicemente, potrebbe consistere nell’utilizzo di anagrammi. In questo caso “Aliz” per richiamare (con un anagramma quasi completo) la parola “Lazio”, vale a dire la squadra di Spinozzi ma anche di Bruno Giordano, ex marito della donna, Sabrina Minardi, diventata in seguito famosa per la sua relazione con “Renatino” e per i regali di valigie Vuitton stracariche di banconote… Tale scenario è stato ritenuto plausibile da più investigatori, ma soltanto dopo le confessioni-choc della donna del boss. E invece c’era anche prima, seppure sotterraneamente. “Aliz”, in sostanza, sarebbe stato un sinonimo di “banda della Magliana”. E Spinozzi usato per mandare a dire: «Badate, noi sappiamo chi è il colpevole, in questa storia c’entra De Pedis, l’amante della Minardi…»

Il covo chiamato “rifugio”
Analisi quasi terminata. Il viaggio nel messaggio-sciarada più ambiguo e contorto della storia criminale italiana è vicino alla conclusione. Restano da analizzare altri 4 tasselli rimasti anch’essi indecifrati per quasi 40 anni. Il primo riguarda la frase successiva a quella in cui è citato “Aliz”, con la quale il mittente ricorda che era stato Spinozzi “a fornirci primo rifugio”. A cosa si voleva alludere? Grazie alla decodificazione ex post, pensando a quanto emerso nel 2008 grazie alla Minardi sul covo di via Pignatelli (passato al setaccio, ma senza trovare il dna della Orlandi), anche questa tessera troverebbe una collocazione. La concatenazione è da brividi: nel 1983, dunque, si era parlato del “rifugio-carcere” della quindicenne senza però rendersene conto?

Alì Agca e il Venerabile
Il quadro si rafforza leggendo le righe mancanti, così sintetizzate dall’Ansa di quel 17 ottobre: «Questo Aliz gli avrebbe fatto conoscere Alì Agca pochi giorni prima dell’attentato al Papa e anche “colui che chiamate venerabile” e che Aliz stesso avrebbe fatto scappare…» Due novità anche queste: i rapitori della Orlandi tirarono in ballo il Lupo grigio e Licio Gelli, comunicando sotto codice che la banda della Magliana (“Aliz”) aveva avuto contatti con entrambi? Si voleva forse alludere a un supporto logistico della “mala” romana (politicamente di destra) al neonazista Agca nei giorni precedenti l’azione di piazza San Pietro? E analogamente: si intendeva rimarcare un aiuto fornito dalla stessa holding criminale al capo della P2 per farlo evadere dal carcere ginevrino di Champ-Dollon, cosa che in effetti era accaduta il 10 agosto 1983? Quante domande. Ma anche quante strane coincidenze e tracce che si aprono. Ultimo dubbio: non sarà che l’intero intreccio, un “sistema” di potere ai margini della legalità e dell’eversione, finì in una rivendicazione sul sequestro Orlandi per dare un’indicazione criptata dei mandanti?

La prova finale
«Sull’ultima facciata della lettera – scrisse l’Ansa – sono stati disegnati alcuni simboli geometrici (tre triangoli incrociati e uno più grande sbarrato) con la scritta “Turchia libera” e “Quaranta esercizi per flauto”…». Prova concreta – quest’ultima – del contatto, diretto o indiretto, avuto da “Dragan” con Emanuela Orlandi, dal momento che lo spartito nello zainetto, scomparso assieme alla quindicenne, aveva proprio quel titolo. Ricapitoliamo. Il “Komunicato V” del 17 ottobre 1983 – interpretato usando le nuove chiavi – diventa davvero un passepartout per fare luce sul mistero della “ragazza con la fascetta” e sui gialli collegati, ma al tempo stesso porta con sé una verità amara e temuta dai familiari: Emanuela e Mirella sono morte ormai da tempo, per mano o con la complicità della gang che a quei tempi furoreggiava su Roma, incaricata di “un lavoro sporco” da mandanti cinici, abilissimi nella pratica del depistaggio, tuttora sconosciuti.

 

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