I Mondiale del ritaglio, non è qui la scala del Calcio

Paolo Condò La Repubblica 18 dicembre 2022
Argentina-Francia è la finale. Ma la squadra più forte di tutte non è quella che vincerà oggi
Il confronto tra il calcio di club e quello delle nazionali è nettamente sbilanciato a favore dei primi: City e Psg possono permettersi il meglio in ogni ruolo. I ct invece vivono di ritagli

 

 

È opinione largamente condivisa che la formazione migliore di sempre sia il Brasile campione del mondo 1970, dove per “migliore” si intende un mix tra la forza intrinseca della squadra, il talento dei singoli e la generosità con la quale l’una e gli altri assecondano il desiderio di spettacolo di chi guarda le partite. Occorrerebbe a questo punto definire il concetto di “spettacolo”, ma ci fermiamo qui perché il discorso non avrebbe una fine: si renderebbe poi necessaria una definizione di “bel gioco”, e poi di “divertimento” e così via. Il Brasile del ’70 presentava in formazione cinque numeri 10 nei rispettivi club: Jairzinho (Botafogo), Gerson (San Paolo), Tostao (Cruzeiro), Pelé (Santos) e Rivelino (Corinthians). Giocatori molto diversi, ma talmente bravi nella fase offensiva da essersi meritati il numero nobile, che nella Seleçao ovviamente rimaneva a Pelé. Sarebbe stato bene anche sulle spalle di un sesto giocatore, il regista arretrato Clodoaldo, più simile a Pirlo che a Casemiro per rendere l’idea: ma siccome era nel Santos, la precedenza spettava al suo boss. Tutti i 22 convocati di quel Brasile giocavano in patria, come gli italiani, gli inglesi e gli uruguagi. Delle grandi nazionali del ’70, solo la Germania aveva chiamato due tesserati all’estero: il milanista Schnellinger e lo juventino Haller.

La superiorità del calcio di club
Nella finale di oggi, 52 anni dopo, dei 26 convocati per parte giocano in patria un solo argentino e sei francesi. È cambiato il mondo, e non dall’oggi al domani. L’Argentina dell’86 aveva 8 “stranieri”, fra i quali Maradona, Valdano e Burruchaga. Il Brasile del ’94 ne aveva 11, fra cui Romario e Bebeto. La Francia del 201814, a partire da Griezmann e Pogba. Chiunque vinca, però, non sarà la squadra migliore del mondo. Quella è il Manchester City, che in Qatar ha piazzato 11 giocatori nei quarti, e al netto di eliminati del calibro di De Bruyne e Gündogan o non qualificati come Haaland. Oppure il Real Madrid che ha perso i suoi tre brasiliani nello scontro fratricida con Modric, e per motivi diversi ha già rivisto in ritiro Benzema e Courtois. O ancora il Bayern, il club col maggior numero di finalisti (4) malgrado la Germania sia uscita ai gironi. E ovviamente il Psg, che occupa ogni locandina del match grazie a Messi e Mbappé, i due volti della finale.

I blocchi e il “giocare come un club”
Nel calcio di una volta, con le frontiere blindate, l’espressione tecnica più elevata apparteneva alle nazionali, spesso basate sui “blocchi”: il ct promuoveva il telaio del club scudettato e lo arricchiva con le migliori individualità delle rivali. Ma nel calcio di oggi, dominato da ricchissimi conglomerati, alcune società sono in grado di allestire formazioni prive di punti deboli. Prendono il meglio, dovunque sia e a qualsiasi prezzo. E siccome poi lo fanno lavorare quotidianamente dagli allenatori più quotati, smussando di qua e allargando di là, ne escono capolavori tattici vietati alle nazionali, il cui tempo è ridotto ai ritagli. Non a caso le rare volte in cui qualche nazionale ci entusiasma, il complimento che le facciamo è “gioca come un club”.

Mondiale: una gara di resistenza
Partendo da questa premessa storica, risulta improprio il dibattito sulla qualità del calcio visto in Qatar, o meglio sull’impostazione prudente adottata da molte nazionali. Un Mondiale, oltre tutto privato del canonico periodo di preparazione, è innanzitutto una questione di sopravvivenza. Il 20 novembre sono partite in 32, oggi si svolgerà il duello tra le ultime due superstiti, e non è passato nemmeno un mese. Chi compete per vincerlo deve giocare sette partite, che per Argentina e Francia, scattate la stessa data, si sono dipanate lungo 27 giorni: e dunque meno di quattro fra una gara e l’altra. A un ritmo del genere, e con avversari di crescente difficoltà, l’assetto di massima è quasi obbligato: difesa solida e protetta, molto spazio alle iniziative dei campioni (se sono fuoriclasse è meglio), chi ne ha diversi attacca e dopo il vantaggio si copre, chi ne ha di meno si copre e in caso di svantaggio contrattacca. Il calcio che dura un mese non prevede sperimentazioni, così necessarie nel corso di una stagione: la formazione della prima partita è quella dettata dal quadriennio, dalla seconda in poi gioca chi sta bene. Per venire atteso più di un match devi essere percepito come la differenza tra un piazzamento e la vittoria. Accadde a Paolo Rossi con Bearzot nell’82. Qui Santos si è stufato di Ronaldo.

 

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