Finale bellissima, ma non cancella la scelta sbagliata

Aldo Cazzullo Corriere della Sera 19 dicembre 2022
Il Mondiale in Qatar? Finale bellissima, ma era meglio non farlo a Doha
Assegnazione poco trasparente, Macron ricordi che il Qatar rappresenta oggi la negazione della Rivoluzione francese, degli ideali di libertà, fraternità e uguaglianza. Corsie preferenziali (Vip e Vvp) e poca attenzione per le persone «normali»

È stata una finale meravigliosa. Eppure non è stato «il miglior Mondiale di sempre», come ha detto il capo della Fifa Gianni Infantino. Così come Infantino – a differenza di quel che ha proclamato un mese fa – non è migrante, non è gay, e soprattutto non è qatarino. Il Mondiale a Doha era meglio non farlo, per una serie di motivi: dall’assegnazione, che è eufemistico definire poco trasparente, al costo umano inaccettabile delle infrastrutture (anche se i numeri dei caduti sul lavoro si riferiscono a tutti i cantieri, anche quelli che hanno trasformato un braccio di mare in un’isola, chiamata ovviamente The Pearl, con sessanta grattacieli). Tramonta su Doha, Macron fa cenno a Pogba di sedergli a fianco, Infantino entra nella tribuna Vvip accanto a Tamim Al Thani, cinque secondi dopo comincia la cerimonia di chiusura. Lo stadio però è ancora semivuoto.

Il motivo è semplice. L’autostrada sfiora le tribune, per condurre i Vip e i Vippissimi fino all’interno in limousine; poi però gli spettatori paganti arrivati in taxi, uber, pullman o con la loro auto devono proseguire per chilometri di coda verso la terra di nessuno, e tornare a piedi in chilometriche file indiane, poi ammassarsi in una calca spaventosa; il tutto per essere ammessi in uno stadio costruito nel deserto (alla finale del 2014 si entrava al Maracanà, nel cuore di Rio, serenamente a piedi, come una domenica pomeriggio qualsiasi). Mai visto, neppure ai Giochi di Pechino 2008 pensati per celebrare il regime comunista e ai Mondiali di Russia 2018 apoteosi del putinismo, un disprezzo così totale e assoluto per le persone normali. Dopo Pechino venne Londra 2012: il più bell’evento sportivo del secolo, finalmente a misura d’uomo.

Infantino dovrebbe tenerne conto, anche se Doha 2022 non è stata una sua scelta ma un’eredità del trio Blatter-Platini-Sarkozy; e pure Macron dovrebbe ricordarsi che il Qatar, né più né meno delle altre monarchie del Golfo con cui è in pessimi rapporti (e dell’Iran dall’altra parte del mare), rappresenta oggi la negazione della Rivoluzione francese, degli ideali di libertà, fraternità e uguaglianza che fanno della Marsigliese un inno non solo nazionale, ma universale. L ’uguaglianza, poi, ve la raccomando; e per motivi molto più seri di una calca per entrare allo stadio. Per fare un solo esempio, se fosse confermata la sua storia con la modella trans Ines Rau, Mbappé qui sarebbe fuorilegge. Intendiamoci: con gli Stati come il Qatar bisogna parlare.

Le diplomazie europee devono fare il loro paziente lavoro; perché non è detto che le potenze del gas e del petrolio, di cui ci piaccia o no abbiamo bisogno, guardino necessariamente all’Occidente come modello di business se non di valori, anziché gettarsi tra le accoglienti braccia degli autocrati cinesi, a cui dei diritti umani non importa nulla. Ma non è detto neppure che la «sport suasion», l’uso dello sport come veicolo di contaminazione e di progresso, sia la strada giusta. Al contrario, il gravissimo scandalo delle mazzette all’Europarlamento — le cui reali dimensioni vanno chiarite al più presto — dimostra che i qatarini e in genere gli sceicchi possono aver avuto l’impressione che in Occidente tutto sia in vendita, e tutto possa essere comprato. Non soltanto supermercati, marchi del lusso, casse di champagne da stappare nei privé, lontano da occhi indiscreti; ma anche politici, anime, e appunto manifestazioni sportive.

Poi certo il Qatar non è solo la famiglia Al Thani, di cui peraltro fanno parte due sceicche potentissime, le sorelle dell’emiro, Mayassa che si occupa di arte e Hind che segue la scuola. Il Qatar è il posto di lavoro di almeno due milioni e mezzo di immigrati. Neppure a New York si possono incontrare in una settimana kenyoti, etiopi, eritrei, sudanesi, marocchini, tunisini – tra cui qualcuno diceva di essere marocchino almeno fino alla semifinale -, egiziani, siriani, pachistani – in particolare di Peshawar, la città vicina al confine afghano -, cingalesi, bengalesi, indiani, nepalesi di Katmandù, filippini, quasi tutti con le foto dei figli sul cellulare (come noi; solo che loro i figli non li vedono da mesi). Da nessuno, in queste quattro settimane, è venuto un gesto ostile, una parola cattiva, uno sguardo che non fosse sorridente verso visitatori che per venire qui hanno speso l’equivalente del salario annuale che loro girano in buona parte alle famiglie lontane. Dopo aver tifato Marocco, un po’ tutti in finale hanno simpatizzato per l’Argentina. Se le decine di milioni di europei che l’hanno seguito in tv avranno un bel ricordo di questo Mondiale, il merito è anche loro.

 

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