La gruviera degli sceicchi

Maurizio Molinari La Repubblica 18 dicembre 2022
La gruviera degli sceicchi
Francoforte, ore 18,45. Lungo la Borsentrasse una ordinata fila di avvocati, uomini d’affari e consulenti raggiunge con puntualità la sede di uno dei più importanti “think thank” della capitale finanziaria dell’Unione Europea.

 

Il motivo è un incontro, rigorosamente “off the record”, sulle sfide portate alle democrazie da Mosca e Pechino, ma quando la parte formale dell’evento lascia il posto ad un dialogo a tutto campo, l’audience si concentra, quasi d’istinto, su un unico tema: il Qatargate. E il pubblico selezionato di Francoforte è in buona compagnia perché nelle ultime 72 ore la maggior parte dei governi dei 27 Paesi dell’Ue sono intervenuti sull’indagine in corso a Bruxelles e Strasburgo, esprimendo con linguaggi diversi una comune, forte preoccupazione per gli episodi finora noti di presunta corruzione di europarlamentari ed eurofunzionari da parte di rappresentanti, faccendieri e spie riconducibili a Qatar e Marocco.

Le borse di contanti con una cifra di almeno 1,5 milioni di euro trovate in possesso della vicepresidente greca del Parlamento europeo, Eva Kaili, dell’eurodeputato del Pd Pier Antonio Panzeri e di un drappello di loro collaboratori italiani scuotono l’Europa perché, come dice la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, «la corruzione erode la fiducia del pubblico nelle istituzioni europee» e «bisogna lavorare duro per riguadagnarla».
Poiché gli investigatori del giudice belga Michel Claise sono solo all’inizio del loro lavoro non si può escludere che ci troviamo davanti alla cima di un iceberg, come peraltro ipotizza Politico sottolineando che la “preoccupazione” accomuna non soltanto gli eurosocialisti — a cui appartengono i fermati — ma anche gli europopolari per non parlare di “un premier centrista del gruppo Renew Europe che sarebbe stato parte dell’intera vicenda”. In attesa di conoscere la reale entità del network illegale europeo attribuito alla regia di Qatar e Marocco, vi sono alcuni interrogativi politico-strategici che è urgente affrontare.

Il primo, e fondamentale, riguarda la possibilità che uno o più Paesi stranieri — in particolare arabi — abbiano sfruttato l’apertura delle istituzioni europee alla collaborazione multilaterale per penetrarle al fine di affermare e proteggere i propri interessi. È uno scenario che evoca il 2001 quando il Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio) fece entrare la Cina senza porle rigide condizioni sul rispetto delle norme della concorrenza, creando così le premesse delle massicce violazioni avvenute in seguito da parte di Pechino, che hanno indebolito in maniera strategica la globalizzazione, generando crisi globali. Nel caso del “Qatargate” la vittima è l’idea di un’Unione Europea protagonista di uno slancio verso la frontiera Sud del Mediterraneo che viene ricambiato con ingerenze molto nocive. Da qui la necessità di ripensare i rapporti con i Paesi accusati di essere all’origine della corruzione, esaminando al microscopio investimenti, decisioni ed accordi siglati negli ultimi anni oppure adesso in via di definizione.

La pista del Qatar porta inevitabilmente a riaprire gli interrogativi sulla vittoria di Doha nell’assegnazione dei Mondiali di calcio di quest’anno — a scapito dell’Australia, che aveva credenziali migliori e investimenti maggiori — così come sul ruolo che gli inviati dell’Emirato svolgono nei delicati equilibri del calcio europeo, nel mercato immobiliare e nel finanziamento sul nostro Continente di una vasta rete di luoghi di culto riconducibili alla Fratellanza musulmana, il cui intento non è mai statol’integrazione dei migranti nei Paesi di accoglienza ma l’esaltazione di un’identità islamica molto radicale e pericolosa.

L’impegno profuso dagli inviati di Doha nell’ottenere dal network di eurocorrotti dichiarazioni politiche, pubbliche, parlamentari, a favore dell’immagine del Qatar come nazione rispettosa dei diritti umani — a dispetto della copiosa documentazione esistente sulla carenza del rispetto delle norme sul lavoro per non parlare dei diritti di genere o del clima — dimostra che all’Emirato non basta ottenere commesse e competizioni di ogni tipo, perché vuole qualcosa di più: conquistare i cuori e le menti degli europei. Puntando, evidentemente, ad una penetrazione di lungo termine nella Ue.

Trattandosi di uno Stato che è una superpotenza nel settore dell’energia, con Al Jazeera ha sostenuto le rivolte arabe in più Paesi, ha siglato un accordo strategico con la Turchia, è il più stretto alleato dell’Iran nel Golfo e ospita anche la più grande base militare americana fuori dagli Stati Uniti, il minimo che ci può aspettare dalla Ue è un riesame approfondito dei rapporti bilaterali. E lo stesso vale per il Marocco, fra i Paesi arabi più vicini all’Occidente, che, secondo gli inquirenti belgi, avrebbe impegnato nugoli di 007 per ridurre al massimo il sostegno delle istituzioni Ue per il Fronte Polisario che rivendica il controllo del Sahara Occidentale, conteso con l’Algeria.

Insomma, se finora i Paesi europei hanno investito tempo e risorse per difendersi dalle “ingerenze maligne” di Russia e Cina, impegnate ad usare operazioni cyber ibride per indebolire la coesione fra partner Ue ed alleati Nato, ora Bruxelles deve prendere atto che bisogna difendersi da “operazioni di influenza” altrettanto pericolose, provenienti dal fronte Sud, dai Paesi della regione del “Mediterraneo allargato”.

Ad avvalorare tale scenario c’è la poderosa offensiva ibrida che l’Arabia Saudita sta conducendo per assicurarsi con Riad nel settembre 2023 l’assegnazione dell’Expo Universale 2030 a scapito di Roma e della sudcoreana Busan. Con una disinvolta aggressività che ricorda da vicino la campagna qatarina sui Mondiali 2022, visto che i sauditi si sono già assicurati oltre 60 promesse di sostegno scritto per Riad da altrettanti Stati e non celano la convinzione di aver già la vittoria in tasca, fino al punto da iniziare a parlare di “obiettivo 2030” perché ritengono di poter facilmente ottenere non solo l’Expo ma anche i campionati mondiali di calcio dello stesso anno. Ovvero, bisogna chiedersi se non solo i qatarini e i marocchini ma anche i sauditi abbiano maturato la convinzione di poter operare a piacimento sulla scena internazionale.

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