Romano Prodi Il Messaggero 18 dicembre 2022
L’autonomia differenziata e l’aumento delle disuguaglianze nel Paese
Quando si tratta di modificare le istituzioni in modo da renderle funzionali all’appartenenza politica, il Ministro Roberto Calderoli può essere definito un genio.
Il suo capolavoro è stato indubbiamente la legge elettorale, da lui scritta e da lui stesso definita “una porcata”. E lo era, in quanto era soprattutto indirizzata a favorire i risultati elettorali del partito che l’aveva sostenuta.
Il successo di allora ha forse spinto Calderoli a ripetere l’esperimento nella sua bozza di riforma dell’autonomia differenziata. Una proposta nella quale la materia trattata è molto elaborata, ma la cui presentazione serve in primo luogo a rianimare gli elettori e i dirigenti della Lega, non certo entusiasti dei recenti risultati elettorali e quindi desiderosi di ritornare a competere per la leadership nelle regioni del nord, soprattutto alla vigilia delle elezioni in Lombardia.
Viene quindi proposta una corposa serie di riforme, volte a portare nell’ambito del potere regionale molte competenze miste fra Stato e Regione o di esclusiva competenza dello Stato. Il tutto attraverso un ruolo nettamente prevalente del potere esecutivo (DCPM) ed una funzione del tutto secondaria del Parlamento. La bozza di Autonomia Differenziata, presentata in modo sorprendentemente veloce al Comitato delle Regioni, prevede infatti passaggi di competenze molto ampi, nel campo della salute, dell’istruzione, dell’ambiente, dei rapporti con l’Unione Europea, della ricerca scientifica, dei porti, degli aeroporti e così via.
Nessun percorso in direzione opposta è naturalmente previsto, anche nei campi dove il decentramento alle regioni non ha dato risultati positivi, ad esempio nei casi in cui la dimensione regionale non si è dimostrata in grado di disporre delle economie di scala necessarie per operare in un mercato mondiale. Basti pensare alle difficoltà che le nostre regioni hanno dimostrato nell’essere presenti in modo attivo nel mercato turistico extraeuropeo, anche se gli esempi potrebbero essere naturalmente moltiplicati. Eppure quest’ipotesi non viene nemmeno considerata.
Il problema più serio riguarda tuttavia il modo con cui viene affrontato l’aumento delle sperequazioni in un periodo storico in cui le disuguaglianze, a partire da quelle territoriali, sono aumentate e stanno ancora aumentando. Disuguaglianze non solo di reddito, ma che si esprimono anche nel livello dei servizi sociali e sanitari, nella povertà educativa e nella minore partecipazione femminile nel mercato del lavoro.
Il compito di affrontare queste disparità è affidato dalla nostra legislazione ai cosiddetti LEP (Livelli Essenziali di Prestazione) che hanno da sempre l’obiettivo prioritario di garantire i diritti dei cittadini e superare le disuguaglianze, anche territoriali. Ebbene, nella proposta in discussione, tutto questo non gode della necessaria priorità, il Parlamento non può intervenire in modo propositivo e non è nemmeno possibile ricorrere alla Corte Costituzionale. Se i LEP non sono adottati per tempo, la soluzione non è certo il riferimento alla spesa storica, i cui effetti distorsivi, in termini di aumento della disuguaglianza, sono noti.
La bozza in questione presuppone l’ipotesi che le regioni possano trattenere parte delle imposte generate nel loro territorio che sono ora destinate allo Stato, dissotterrando l’antico slogan “essere padroni in casa propria“. Le regioni dovrebbero infatti disporre delle risorse prodotte entro i confini ragionali. Questo non è un percorso possibile: è invece importante che le nostre regioni possano godere di maggiore autonomia e flessibilità nell’organizzazione del personale e nell’esercizio dell’attività amministrativa. Tutto questo non esige però una nuova legge, ma un serio esercizio della “sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza” già espressamente previste nell’art.118 della Costituzione. Voglio solo aggiungere che queste caratteristiche possono essere esercitate e messe in pratica solo se vi è un solido e organizzato potere centrale, capace di esercitare il coordinamento con la necessaria autorità. Se non rispettiamo questi elementi di autorità cadiamo semplicemente nell’anarchia.
Sotto quest’aspetto mi resta difficile capire come queste proposte di Calderoli possano essere compatibili con i valori e gli obiettivi del partito che costituisce la maggioranza dell’attuale Governo, un partito che ha tradizionalmente espresso sentimenti e programmi ben diversi e che ha un forte radicamento nelle regioni che più sono timorose nei confronti delle riforme prospettate. Infatti, da parte delle regioni del sud, sono state espresse, ovviamente in modo ancora isolato, osservazioni fortemente negative nei confronti del progetto Calderoli. Attendiamo invece che si arrivi a una riflessione corale su un’autonomia differenziata che possa offrire nuovi spazi anche ai problemi specifici del nostro Mezzogiorno.
L’autonomia differenziata e l’aumento delle disuguaglianze nel Paese
Romano Prodi Il Messaggero 18 dicembre 2022
L’autonomia differenziata e l’aumento delle disuguaglianze nel Paese
Quando si tratta di modificare le istituzioni in modo da renderle funzionali all’appartenenza politica, il Ministro Roberto Calderoli può essere definito un genio.
Il suo capolavoro è stato indubbiamente la legge elettorale, da lui scritta e da lui stesso definita “una porcata”. E lo era, in quanto era soprattutto indirizzata a favorire i risultati elettorali del partito che l’aveva sostenuta.
Il successo di allora ha forse spinto Calderoli a ripetere l’esperimento nella sua bozza di riforma dell’autonomia differenziata. Una proposta nella quale la materia trattata è molto elaborata, ma la cui presentazione serve in primo luogo a rianimare gli elettori e i dirigenti della Lega, non certo entusiasti dei recenti risultati elettorali e quindi desiderosi di ritornare a competere per la leadership nelle regioni del nord, soprattutto alla vigilia delle elezioni in Lombardia.
Viene quindi proposta una corposa serie di riforme, volte a portare nell’ambito del potere regionale molte competenze miste fra Stato e Regione o di esclusiva competenza dello Stato. Il tutto attraverso un ruolo nettamente prevalente del potere esecutivo (DCPM) ed una funzione del tutto secondaria del Parlamento. La bozza di Autonomia Differenziata, presentata in modo sorprendentemente veloce al Comitato delle Regioni, prevede infatti passaggi di competenze molto ampi, nel campo della salute, dell’istruzione, dell’ambiente, dei rapporti con l’Unione Europea, della ricerca scientifica, dei porti, degli aeroporti e così via.
Nessun percorso in direzione opposta è naturalmente previsto, anche nei campi dove il decentramento alle regioni non ha dato risultati positivi, ad esempio nei casi in cui la dimensione regionale non si è dimostrata in grado di disporre delle economie di scala necessarie per operare in un mercato mondiale. Basti pensare alle difficoltà che le nostre regioni hanno dimostrato nell’essere presenti in modo attivo nel mercato turistico extraeuropeo, anche se gli esempi potrebbero essere naturalmente moltiplicati. Eppure quest’ipotesi non viene nemmeno considerata.
Il problema più serio riguarda tuttavia il modo con cui viene affrontato l’aumento delle sperequazioni in un periodo storico in cui le disuguaglianze, a partire da quelle territoriali, sono aumentate e stanno ancora aumentando. Disuguaglianze non solo di reddito, ma che si esprimono anche nel livello dei servizi sociali e sanitari, nella povertà educativa e nella minore partecipazione femminile nel mercato del lavoro.
Il compito di affrontare queste disparità è affidato dalla nostra legislazione ai cosiddetti LEP (Livelli Essenziali di Prestazione) che hanno da sempre l’obiettivo prioritario di garantire i diritti dei cittadini e superare le disuguaglianze, anche territoriali. Ebbene, nella proposta in discussione, tutto questo non gode della necessaria priorità, il Parlamento non può intervenire in modo propositivo e non è nemmeno possibile ricorrere alla Corte Costituzionale. Se i LEP non sono adottati per tempo, la soluzione non è certo il riferimento alla spesa storica, i cui effetti distorsivi, in termini di aumento della disuguaglianza, sono noti.
La bozza in questione presuppone l’ipotesi che le regioni possano trattenere parte delle imposte generate nel loro territorio che sono ora destinate allo Stato, dissotterrando l’antico slogan “essere padroni in casa propria“. Le regioni dovrebbero infatti disporre delle risorse prodotte entro i confini ragionali. Questo non è un percorso possibile: è invece importante che le nostre regioni possano godere di maggiore autonomia e flessibilità nell’organizzazione del personale e nell’esercizio dell’attività amministrativa. Tutto questo non esige però una nuova legge, ma un serio esercizio della “sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza” già espressamente previste nell’art.118 della Costituzione. Voglio solo aggiungere che queste caratteristiche possono essere esercitate e messe in pratica solo se vi è un solido e organizzato potere centrale, capace di esercitare il coordinamento con la necessaria autorità. Se non rispettiamo questi elementi di autorità cadiamo semplicemente nell’anarchia.
Sotto quest’aspetto mi resta difficile capire come queste proposte di Calderoli possano essere compatibili con i valori e gli obiettivi del partito che costituisce la maggioranza dell’attuale Governo, un partito che ha tradizionalmente espresso sentimenti e programmi ben diversi e che ha un forte radicamento nelle regioni che più sono timorose nei confronti delle riforme prospettate. Infatti, da parte delle regioni del sud, sono state espresse, ovviamente in modo ancora isolato, osservazioni fortemente negative nei confronti del progetto Calderoli. Attendiamo invece che si arrivi a una riflessione corale su un’autonomia differenziata che possa offrire nuovi spazi anche ai problemi specifici del nostro Mezzogiorno.