Anche Roncone al capezzale (politico) di Goffredo Bettini

Fabrizio Roncone Corriere della Sera 21 dicembre 2022
Nel libro di Goffredo Bettini analisi (e nostalgie) della sinistra: un partito chiuso ai ceti popolari e permeato dall’affarismo
Il libro dell’ex senatore che sulle primarie dem ha scelto il silenzio. «Il mondo e ogni forma di vita sono attraversati dal confronto tra chi vince e chi perde. Tra la forza e la debolezza. Tra la fortuna e lo scacco»

 

Goffredo Bettini è uno dei pochi che ancora si lascia martellare da passioni politiche primordiali. Sanguina a tempo pieno. È il suo genio. Il suo carisma. La gente di sinistra, che ha voglia di sinistra, va quindi alle presentazioni del suo libro,

A sinistra, da capo (Paperfirst, pp. 304, € 18) per brutale necessità. La stagione, come sappiamo, è nebbiosa. Incerta. Mortificante. Non c’è solo questo estenuante congresso del Pd , così pieno di vaghezza, di correnti prima biasimate e poi — sotto sotto — blandite, di slogan gonfi del più stucchevole politichese, tipo che «il partito parte da noi», o di idee bislacche, come quella di cambiargli nome. C’è anche una questione morale battente: il caso Soumahoro e, in queste ore, il Qatargate.

«Osservo con profonda amarezza. Credo che il Pd sia ancora sano, nel suo complesso — dice Bettini —. Ma credo pure che la sinistra sia purtroppo permeabile all’incursione dell’affarismo, perché s’è attenuata una certa critica ai valori dominanti, a quei tragici miti della ricchezza, del lusso, e del successo bramato». Bettini indica allora un sentiero e una destinazione. L’incipit del saggio è esplicito: «Il mondo e ogni forma di vita sono attraversati dal confronto tra chi vince e chi perde. Tra la forza e la debolezza. Tra la fortuna e lo scacco». E perciò: in questo conflitto è necessario schierarsi dalla parte dei perdenti («Per Berlinguer era la “spinta propulsiva” nella difesa degli ultimi»). E tuttavia non basta infondere coraggio: occorre creare opportunità, nuovi destini anche a chi, adesso, arranca nella penombra della vita.

La domanda velenosa è: Bettini ha nostalgia del Pci? «No, sebbene il Partito comunista sia stato fondamentale nella costruzione della democrazia italiana. Però ho nostalgia di una certa sinistra, questo sì. Ecco perché voglio un Pd che abbia peso e che sia visibile — spiega, con ostinazione —. Che partito è un partito che ha paura di essere mangiato da un altro schieramento? Come si possono fare alleanze se non sai raccontare cosa pensi del mondo?». I partiti, aggiunge, esistono ancora; Fratelli d’Italia, ormai lassù, è un partito «ideologico, strutturato, coeso».

Il saggio — a lungo in testa alla classifica dei libri politici più venduti — è diviso in due parti. Nella prima c’è una densa lettura storica dell’Italia e del pianeta, la filosofia che s’attorciglia ai destini degli uomini e delle donne, tra rivoluzioni e vittorie, illusioni e sconfitte (gli esempi: Spartacus, i Ciompi, i contadini tedeschi di Thomas Muntzer, Turner, Zapata e altri); un patrimonio immenso: il miracolo — scrive Bettini — dei diseredati. Nella seconda parte si vira invece sul diario politico degli ultimi anni.

La dedica è bella, e nasconde molto del tratto umano di Bettini: «A mio padre Vittorio, fervente repubblicano, che mi ha fatto conoscere “il lampo” della politica». Sono i genitori, quasi sempre, a spingerci su un orizzonte: l’avvocato Vittorio, nobile e gran proprietario terriero marchigiano, e Wilde, che in prime nozze aveva sposato diciassettenne il principe musulmano Xhemal Rexha, albanese e nipote del pascià. «Papà, quando ero bambino, mi faceva leggere Dostoevskij. Avrei preferito ascoltare qualche favola. Invece sentivo parlare solo di politica»: coltissimo (e s’è scoperto che un suo amato poeta è Ezra Pound), snob, scapolo, un braccio rotto da quelli di Autonomia nel 1978, comincia nel Pci, è segretario romano della Fgci, poi Pds, Ds, Pd: deputato, senatore, europarlamentare. Come ha scritto in una magnifica recensione Mario Tronti sul Manifesto, un uomo diviso in due. Da un lato: «Goffredo l’intellettuale, il vorace lettore di libri, in genere quelli più eretici…». Dall’altro lato «Bettini il politico, il sapiente manovratore, il cardinal Richelieu di tanti reucci, sindaci, governatori, segretari, l’appassionato di cinema diventato regista di celebri operazioni politiche» (sul discusso, stretto rapporto tra Bettini e i 5 Stelle, Tronti è netto: «Non condivido una parola di quanto dice da tempo»).

Colpisce, in effetti, il silenzio di Bettini sugli attuali candidati alla segreteria del Pd. Un silenzio piuttosto rumoroso. Il libro ha la postfazione di Andrea Orlando: una firma e una presenza che a molti era sembrata molto più che un suggerimento per l’establishment del Nazareno. Sappiamo com’è andata. È anche possibile che non tutti abbiano gradito certe pagine del saggio. Come quando Bettini spiega che il Pd, negli anni, s’è lentamente sempre più chiuso in una dimensione di governo. «Certo evitando lo sfascio del Paese. Ma anche smarrendo la rappresentanza degli strati più popolari». La responsabilità? «Non abbiamo mai fatto i conti con ciò che accadde nel passaggio dell’89-91. Le colpe più recenti, però, le porta Matteo Renzi. Molti ne furono conquistati. E anch’io fui benevolo verso il suo impeto. Poi, lo straordinario risultato delle Europee nel 2014 smascherò il suo populismo, apologetico della modernità. Da quell’esperienza il Pd uscì piegato, senza più prospettive». Adesso, invece, Bettini è tornato a vederne alcune (naturalmente è lecito temere si tratti di un miraggio).

 

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