Fabrizio Barca, Antonio Floridia La Stampa 22 dicembre 2022
Barca e Floridia, il Pd da rifare
Antonio Floridia, autore di “PD. Un partito da rifare? Le ragioni di una crisi” (Castelvecchi), risponde alle domande di Fabrizio Barca. Ne pubblichiamo il dialogo
Fabrizio Barca: Sono almeno dieci anni che stai addosso al PD per spiegargli che non si riconnetterà alla società né servirà granché al paese se non riformerà la sua organizzazione. Figurati se non sono d’accordo con te. Nello scorso decennio, ho investito quasi tre anni di vita dopo l’esperienza di governo – c’eri anche tu – non solo per teorizzare ma per sperimentare un modello organizzativo moderno, partecipativo e autorevole, di partito. Un modello in cui, dimenticando il mondo che non ritorna dei “partiti di massa” dove 1 cittadino su 10 era iscritto a un partito, i circoli territoriali del PD – la sua più grande carta, unica in Europa – diventassero “spazi di democrazia” interessanti per i cittadini attivi organizzati: spazi dove la cittadinanza e il lavoro di questo nostro mondo contemporaneo che si sentono e sono impegnati a ridurre le disuguaglianze trovassero un luogo per incontrarsi fra loro e parlare con chi si candida a governare. Luogo per luogo. E, al tempo stesso, un modello dove il Centro del partito avesse un luogo ristretto di decisione, una Direzione di 15-17 membri al massimo … come ogni organizzazione che voglia funzionare (no i 150 e passa del PD di oggi). Chiamammo quel progetto “Luoghi Ideali” … tutti i materiali sono sul web. Bene, tu oggi hai proposte coerenti con queste e più fini e aggiornate di queste. Ma prima di sentirle … ti tocca convincerci che oggi, nella crisi in cui siamo, il tema sia ancora l’organizzazione. Non pensi che invece il tema sia prima dui tutto … avere un’identità? Decidere e comunicare per cosa battersi?
Pd, un partito da rifare? Il faccia a faccia tra Fabrizio Barca e Antonio Floridia
Antonio Floridia: Bisogna intendersi: non si tratta solo di un modello “organizzativo” in senso stretto (i circoli, le tessere, gli organismi dirigenti, ecc.), ma del modello di democrazia e di partecipazione che il PD ha adottato sin dalla sua nascita e adotta tuttora, e che ha bisogno di essere radicalmente ripensato. E da questo punto di vista, le proposte emerse dal progetto “luoghi ideali” non hanno perso per nulla la loro attualità. Certo, è essenziale avere una visione, ma se non sai come cercarla (attraverso quali forme, regole e procedure), discuterla, elaborarla collettivamente e infine poi decidere di assumerla formalmente e di tradurla in azione politica, allora la “visione” che guida il partito (quando c’è) è solo affidata alle capacità e alla lungimiranza (eventuale) di un leader e della sua cerchia ristretta: non diviene identità collettiva. Se non la fai divenire, attraverso la partecipazione e il dialogo collettivo, un patrimonio condiviso, questa “identità” rimane inerte. E a ben poco vale poi invocare il “tornare a farsi capire nei bar”, se poi non hai militanti, o anche semplici cittadini che conoscono le tue posizioni, che sappiano cosa dire, mentre bevono una birra……Un partito democratico e di sinistra non può che reggersi sulla stretta connessione di tre livelli: una “filosofia pubblica” (una “visione”, appunto), un’idea dei grandi ambiti programmatici (un’idea del lavoro, del Welfare, ecc.) e infine le singole policies, le specifiche proposte di politiche sulle varie questioni. Un grande handicap del PD, sin dall’inizio, è stata l’illusione del “partito post-ideologico”, l’idea di un partito che tenesse insieme tutti i “riformisti” (ma propugnatori di quali riforme?) sulla base delle “cose da fare”: non ha funzionato, non poteva funzionare; e anzi ha finito per oscurare anche il ruolo delle stesse culture fondatrici, il solidarismo cattolico e il solidarismo della tradizione socialista.
E quei tre livelli (visioni, programmi, politiche) si possono coerentemente alimentare solo se il partito diviene spazio e attore di una “deliberazione democratica”, intesa come un processo collettivo di indagine pubblica, di apprendimento collettivo, e di ricerca di soluzioni a questioni grandi e piccole: un processo che, nel far questo, forma e fa emergere anche nuove capacità di direzione politica e amministrativa.
Fabrizio Barca: A me convinci. Insomma ci vogliono visione, valori, proposte, ci vogliono le cose per cui battersi … e metterle sul tavolo per chi le sa e vuole raccogliere, con un sacrosanto mix di teoria e concretissimo spirito pratico, ma ci vuole organizzazione, sia per produrre quelle cose, sia perché camminino nella e colla società. Lasciami solo aggiungere ancora, sul tema di valori-visione-proposte, che il modo con cui in Italia, solo in Italia, i partiti del dopoguerra, DC, PCI, PSI e PRI in primis, chiudono i battenti, agitando pentitismo e discontinuità tutta di immagine, spezza il filo con il loro pensiero. Assieme agli errori, butta via le riflessioni profonde, le tracce di programma frutto del rinnovato (rispetto ad antifascismo e Costituzione) punto di incontro fra cultura cattolico-democratica e cristiano-sociale, social-comunista (via italiana) e liberal-azionista: riconoscimento della eterogeneità delle persone, ognuna con i suoi tratti e aspirazioni, e dunque di un’eguaglianza come “pieno sviluppo” di ciascuna e ciascuno; rottura della divisione del lavoro (socialdemocratica) fra privato che accumula surplus indisturbato (salvo regole per lenire i “fallimenti del mercato”) e pubblico che produce in modo dirigista servizi sociali; e quindi “programmazione attraverso il mercato” – quanto attento era quel pensiero all’uso del mercato concorrenziale assieme alla democrazia! – ; e, ancora, ricerca, luogo per luogo, di una partecipazione delle persone alla formazione della domanda di beni pubblici; e sindacato di territorio; etc. Nel caso del PCI si tratta delle tracce di un “programma fondamentale non scritto”, come scrive nel 1992 Luciano Barca, mio padre, nell’”Eresia di Berlinguer” (Sisifo Editore). La nascita del PD è segnata da questa ricercata e suicida cesura, operata ben prima, dai gruppi dirigenti di diversa provenienza che vi confluiscono. E poi, mescolato con tutto questo, c’è il tema dell’organizzazione, quella, ci dici tu, che consente a tutto ciò di esistere e avere gambe. E allora, prima di venire all’oggi, dicci in tre punti secchi le tare organizzative con cui nasce il PD. Perché le ha? Che idea di partito e di politica avevano i fondatori? Non avevano ragione a pensare che l’organizzazione dei partiti di massa non fosse più costruibile? Che ci volesse un’altra cosa?
Antonio Floridia: Più che “tare” a me piace definirli come “miti fondativi”: uno è stato quello di cui abbiamo appena parlato, l’idea che anche per un partito della sinistra fosse oramai giunta l’era della “morte delle ideologie”, e che bastassero “i programmi”: ma un “programma” non è un collage di buone idee, deve avere un “filo” che lega le singole proposte. E questo “filo” non può essere genericamente quello dei “valori”, perché si rischia sempre che rimangano come dei “caciocavalli appesi” (per usare un’espressione di Antonio Labriola in una lettera a Benedetto Croce): occorre partire da un’analisi critica del capitalismo contemporaneo, e porsi innanzitutto il tema della dignità e della qualità del lavoro e della lotta alle diseguaglianze, che non può non essere il tratto distintivo e peculiare di una forza della sinistra.
L’altro “mito fondativo” fu quello del “partito aperto”. Può sembrare un paradosso, ma non lo è a mio parere: per essere veramente “aperto” alla società (ascoltarla e farsi capire), un partito deve saper essere “chiuso” nel modo giusto, cioè avere una dimensione associativa ben definita e dei precisi confini organizzativi. Il che significa che bisogna garantire a chi si iscrive delle prerogative specifiche, dei poteri, che non possono essere indistintamente devoluti all’esterno, come accade con le cosiddette primarie “aperte”: in tal modo si disincentiva e si svaluta l’idea stessa che un cittadino possa “concorrere con metodo democratico” alla “determinazione della politica nazionale” attraverso la sua adesione ad un partito e la partecipazione (di varia forma e intensità) alla sua vita e alle sue decisioni. All’inizio, si pensava che contro la” sclerosi” dei vecchi partiti si potesse praticare una forma di democrazia della disintermediazione, attraverso un rapporto diretto di legittimazione del leader…ma è accaduto invece l’opposto: leader vulnerabili (quanti segretari ha avuto il Pd?) e svuotamento di quello che i politologi chiamano il party on the ground…
Il terzo mito fondativo è quello della “vocazione maggioritaria”, o – con la formulazione del Manifesto dei Valori del 2007 che ora si intende cambiare -, del “partito del Paese” o “della Nazione”. Qui vi era un equivoco di fondo: si scambiava quella che, nel lessico del Pci, si chiamava “funzione nazionale” (del movimento operaio e del partito che ne era espressione) con l’idea di un partito che non ha più un preciso segmento di società e di interessi sociali da rappresentare in modo prioritario. Vi era un’idea a-conflittuale e indifferenziata della società e da qui derivava anche il modello di un partito che “aderisse” o semplicemente rispecchiasse questa società e si potesse limitare a mediare tra i vari interessi. Anche questo non ha funzionato: l’idea del partito “pigliatutto” non ha retto alla prova dei fatti. Il PD ha progressivamente perso consensi nella base popolare tradizionale ma non ha acquisito quello dei nuovi ceti che si presumevano fossero “moderati” e “moderni”…
Fabrizio Barca: Ancora una cosa, al di là delle assai diverse culture, gli ultimi quattro Segretari del PD hanno tutti proposto strade per “riconnettersi alla società”. Bersani, annunziando una ri-organizzazione, poi non realizzata. Renzi, col modello modernista dei tavoli della Leopolda. Zingaretti con la prospettiva di una “piazza grande”. Letta con le Agorà. Ci dici cosa non va in ognuno di questi passi?
Floridia: Terrei a parte il caso di Renzi. Le Leopolde sono state solo la manifestazione di un “partito parallelo”: come può un segretario farsi la sua propria personale kermesse? Era chiaramente il segno che del partito non gli importava proprio nulla, come poi si è visto. Negli altri casi che citi le cose sono diverse: Bersani cominciò a vedere le prime cose che non andavano (usò nel 2010, per la prima volta, la formula della “ditta”, quando disse che “il buon nome della Ditta”, in troppe parti del paese, finiva in cattive mani, mettendo in luce un fenomeno che si sarebbe poi manifestato in tutta la sua ampiezza: il partito in franchising, la feudalizzazione del partito e gli scarsi poteri di intervento dal “centro”); e cominciò pensare ad una “manutenzione” dello Statuto appena varato (ad esempio, dare sostanza a quella che poteva essere una buona idea, quella dell’”Albo degli elettori”, intesa come una stabile cerchia associativa “esterna” rispetto a quella degli iscritti: il che non è mai avvenuto, diventando l’Albo, di fatto, solo l’elenco di chi ha partecipato alle primarie). E aveva anche pensato di organizzare una conferenza sul partito. Ma saltò tutto, per la crisi dell’estate del 2011 e la nascita del Governo Monti.
Anche Zingaretti ha provato a smuovere le acque: insediò una commissione, presieduta da Maurizio Martina: nel mio libro ne parlo in dettaglio. Ci furono modifiche positive (in primo luogo, il fatto stesso che nello Statuto si introduce per la prima volta la parola stessa “congresso” e poi in particolare l’idea di una “prima fase” in cui gli iscritti possano discutere e votare documenti politici e programmatici “in alternativa tra loro”: novità che, paradossalmente, è stata ora “sospesa” proprio per il congresso in corso…). E poi con un’iniziativa come il convegno bolognese “Tutta un’altra storia” che fu curato da Gianni Cuperlo, che ebbe un notevole successo e avrebbe potuto avere un seguito significativo, ma che fu poi di fatto bloccato e fatto arenare. Tu hai partecipato a quel convegno, e hai raccontato in un tuo libro come è andata, e io riprendo la vicenda nel mio lavoro, come esempio di quella che appare una “gabbia”, in cui il PD è come intrappolato: per potersi rinnovare e cambiare avrebbe bisogno di cambiare lo stesso modo di discutere e di decidere, ma non lo fa, perché ciò metterebbe in discussione gli assetti e gli equilibri interni agli attuali gruppi dirigenti.
Anche le Agorà di Letta sono nate da una giusta intuizione: che il PD, così com’era, non aveva luoghi e spazi per il confronto, l’elaborazione collettiva, la formazione di idee e opinioni attraverso il dialogo e lo scambio argomentativo. La crisi di governo e poi le elezioni hanno però impedito di verificare quale esito avrebbe potuto avere questa esperienza: ossia, come sarebbe stato risolto il problema della connessione tra il momento della discussione e della partecipazione e quello della decisione democratica? Le idee emerse dalle Agorà in che modo avrebbero dovuto e potuto essere “assunte” dal partito nel suo complesso?
Fabrizio Barca: Si, ti seguo. Sull’ultimo tentativo, le Agorà, eravamo in molti a domandarci come il PD avrebbe usato i loro esiti. Se da lì sarebbe venuta una scossa. Noi come ForumDD, avevamo portato nelle Agorà del PD cinque nostre dettagliate proposte, e, a esito di un confronto acceso e ben governato, la piattaforma del PD le aveva sottoposte ad una vera valutazione. Come sempre in questi nuovi tentativi di partecipazione democratica su rete, i numeri erano rimasti bassi, ma le nostre proposte erano risultate fra le 10 più votate su oltre 900. In un caso si era andati oltre. Si tratta della proposta che precedeva la pandemia ma che essa ha reso urgentissima: la creazione di un’infrastruttura pubblica Europea, come il Cern, che ricerchi e produca farmaci anti-virali e per malattie rare; il solo modo per contrastare il tratto più grave e drammatico dell’attuale fase del capitalismo, la concentrazione del controllo sulla conoscenza che consente alle big pharma di strangolare i governi con prezzi irragionevoli – una dose che costa attorno a 2$ venduta a 16$ e poi oltre 20$ e forse domani 30$ – e profitti mai visti finanziati dall’accumulo di debito pubblico sulle future generazioni. Bene, il Segretario Letta aveva subito fatto sua la proposta, adoperandosi con successo perché fosse discussa (come è stato) dal Parlamento Europeo. Non so se sarebbe divenuta un pezzo forte del “programma fondamentale” del PD. Certo è che, quando il processo-Agorà si è interrotto con la precipitosa crisi di governo e si è andati al voto, il PD si è ben guardato dall’usare questa proposta in campagna elettorale. Non lo capisco! E siamo così all’oggi. Dicci allora la tua. Dopo questi vari tentativi incompiuti, come realizzare quella “partecipazione” alle decisioni dei gruppi dirigenti, che è l’essenza della nuova democrazia? E nel chiedertelo, mi permetto di sottolineare ancora che questa parola chiave – partecipazione – era nel 1979 uno dei tre “elementi di socialismo” proposti da Enrico Berlinguer e costituiva da tempo una delle basi di quel dialogo con Aldo Moro, che fu interrotto dal suo rapimento e omicidio, un passaggio che così tanto – assai più di quanto vogliamo ammettere – ha alterato la storia repubblicana.
Antonio Floridia: Nel mio libro, sia pure in modo indiretto, utilizzo una linea di riflessione teorica sui partiti che è emersa negli ultimi anni, e che parla apertamente di un “modello deliberativo” di democrazia interna ai partiti. Cosa vuol dire? Possiamo dire che con questo termine si evoca una possibile pluralità di metodi di discussione e di partecipazione che si ispirano ad una nozione classica di “deliberazione”, intesa come la fase di discussione che precede la decisione: la fase cioè in cui si soppesano i pro e i contro ad una soluzione, si raccolgono e si condividono tutte le informazioni e le conoscenze necessarie, si giustificano pubblicamente certe scelte e non altre, si condividono o si criticano certe proposte, ecc. A me convince l’idea che, oggi, un partito che voglia essere democratico e di sinistra debba ispirarsi a questa idea di partecipazione. Ma la condizione è che ci siano procedure interne che facilitino e prevedano questa circolarità tra discussione collettiva e decisione democratica. Si possono fare molti esempi: ad esempio, mettiamo il caso (frequente) di una questione politica su cui all’interno del partito ci sono opinioni e giudizi diversi, o su cui c’è incertezza sia sulla diagnosi, sia sulle possibili opzioni. In questi casi, si dovrebbero poter attivare a tutti i livelli forme di “dibattito pubblico” interno al partito, con un dossier iniziale, in cui siano indicati chiaramente i punti condivisi e i punti controversi, aprire una fase – temporalmente molto ben definita – di discussione intensa, on line e off line, presentare un rapporto con tutte le opinioni emerse e affidarle alla decisione di un organismo dirigente rappresentativo, legittimato a decidere. E si potrebbe organizzare in questo modo anche la Conferenza programmatica annuale, che era una delle proposte del progetto “Luoghi ideali” e che peraltro era prevista (sia pure in modo sommario) dallo stesso Statuto del 2007 (e non se ne è mai fatta una, ovviamente).
Ma proprio qui “casca l’asino”, come si suole dire: il PD non ha un regime interno fondato sui principi di una democrazia rappresentativa. Vige una democrazia plebiscitaria: una logica di investitura del leader, di mera autorizzazione al comando: e addirittura sono i candidati-leader a “far eleggere” gli organismi dirigenti, non gli organismi dirigenti che eleggono un segretario. L’Assemblea nazionale, è bene ricordarlo, viene composta da componenti che vengono letteralmente “trainati” dal voto ai candidati-segretari.
E’ questo il «baco» che mina alla radice la compagine del PD: il PD non è un partito con una ben definita base associativa, la quale a sua volta elegga organismi che rappresentino gli orientamenti politici presenti nel partito; organismi i quali, a loro volta, possano individuare la personalità che meglio esprime gli orientamenti prevalenti e, nel contempo, sia in grado di operare, quanto più possibile, una sintesi e “tenere insieme” tutto il partito. Nulla di tutto questo: il PD è stato un’altra cosa. La piramide è rovesciata: da una parte, un segretario eletto da un corpo indefinito di «elettori», che contratta il consenso con le varie filiere di notabili e dirigenti, delegando loro il controllo del partito periferico; dall’altra parte, un’Assemblea nazionale, e poi una Direzione, che sono un mero riflesso di questa logica top-down. Ed è pura ipocrisia poi lamentarsi delle “correnti”, quand’è la stessa costituzione “formale” e “materiale” del partito a prevederle intrinsecamente, e per di più a plasmarle non come aree politico-culturali, ma come semplici aggregazioni di cordate e di filiere legate ai candidati-segretari. Su questo punto dovrebbero chiaramente pronunciarsi oggi i candidati in corsa: è l’elemento cruciale per un vero rinnovamento del partito.
Fabrizio Barca: Mi pare molto chiaro. Sulla diagnosi dell’esistente colgo da te un punto, forse il più grave: tu parli di un “segretario eletto da un corpo indefinito di «elettori», che contratta il consenso con le varie filiere di notabili e dirigenti, delegando loro il controllo del partito periferico”. Questo vuole dire che le strutture regionali (o, talvolta, sub-regionali) del partito sono singolarmente governate da figure che, residenti che siano nei luoghi o al centro, hanno con il “partito centrale” una sorta di contratto: sostegno del simbolo nazionale (magari talvolta un po’ nascosto) in cambio di un’assoluta autonomia, anche strategica, nei luoghi controllati e di una forte influenza sulle candidature. Io lo definirei un partito “con-federale”, non federale, che per organizzazione tende a perpetuare l’assenza originaria di una comune identità, al di là di un Manifesto di valori che può esser letto in tanti modi diversi. E dunque a questo tu contrapponi un “vero federalismo”, in cui il complesso del gruppo dirigente centrale “controlla”, è responsabile, della strategia, ma lo è esponendosi a un confronto acceso, informato e aperto che consente la circolazione dei saperi, dal basso verso l’alto e viceversa. Non sono cose, diciamocelo, che domattina si mettono in opera, come un prefabbricato. Vanno sperimentate, valutate, aggiustate. Ma è la strada da seguire. E in cui credere. Per avere la forza di provarla. Difficile, ma gli esiti dell’esperimento “Luoghi Ideali” ci dicono che è tutt’altro che utopia. E’ una strada pratica. Che coinvolge le persone. E soprattutto – te lo dico io, oggi, dal mio nuovo ruolo di “cittadino attivo organizzato” nel ForumDD – è una strada interessante per milioni – sì, diciamo 2-3 milioni – di cittadini organizzati fuori o anche lontani dai partiti che sono impegnati a cambiare per il giusto la società e oggi non trovano, e così troverebbero, un interlocutore. Ma dicci un’altra cosa, decisiva: in questo modello come avviene la formazione e selezione di classe dirigente?
Antonio Floridia: Il modello di democrazia interna che ha caratterizzato il Pd ha avuto gravi conseguenze anche su questo versante: semplicemente, non ha fatto emergere quadri dirigenti che si forgiassero nel vivo di una battaglia politica “dal basso”, nei circoli e nelle sezioni, nei piccoli consigli comunali; che si formassero attraverso la “sperimentazione” delle proprie capacità di direzione politica o di gestione amministrativa…Lo stato di progressivo abbandono dell’organizzazione territoriale, e tutta la logica di funzionamento del partito, ha poi spinto verso un modello di partito in cui il motore è solo l’aspirazione a ricoprire una carica pubblica. Del resto, il partito ha sempre meno risorse finanziarie…chi fa politica a tempo pieno lo fa inevitabilmente con l’obiettivo di una qualche carriera istituzionale, mentre chi non ha queste aspirazioni, e magari vorrebbe solo impegnarsi a dare una mano, non ha l’aiuto di una “infrastruttura logistica” che faciliti la partecipazione. Così si svuotano i circoli, e alla fine, come ha mostrato la vostra indagine sul Pd di Roma, i circoli si mobilitano solo quando si tratta di votare…e spesso diventano solo il quartier generale di un capocorrente…. Anche in questo caso, la ricerca teorica aveva per tempo individuato le categorie interpretative di questi fenomeni: si indebolisce il partito “sul territorio” e si ha invece l’ipertrofia degli staff centrali al servizio dei leader e la prevalenza del “partito degli eletti”. Per di più, con una forma distorta e surrettizia di finanziamento pubblico delle attività politiche, perché si utilizzano sempre più le risorse istituzionali (gli uffici di segreteria, i consulenti, ecc.).
Fabrizio Barca: Cioè tu ci stai anche spiegando perché l’attuale gruppo dirigente, con qualche eccezione, la cosa che dici tu non la vuole, preferendo il metodo della “cooptazione per fedeltà” quella che rende vecchio e conservatore e supino di botto un ventenne che si inoltra per quella strada … ovviamente finché non tradirà. Non la vuole oggi, come non la volle nel 2013 quando con Luoghi Ideali riuscimmo a portare una simile proposta nel cuore del Nazareno … che fu abilmente soffocata (Mi dimisi dal Gruppo di Lavoro costruito per soffocarla e lasciai il PD). Non la vuole chi è più preoccupato di vedere il proprio ruolo messo a repentaglio da un nuovo modo di formare e selezionare classe dirigente, che di vedere rattrappirsi il proprio partito: “tanto a chiudere baracca ci si metterà tempo, specie se la rete di interessi, favori, legami ci prolungherà la vita”. Come non richiamare, a tale riguardo, le parole durissime e antesignane di Berlinguer a Scalfari nel 1981, che non erano rivolte solo agli altri partiti, ma anche al proprio, e che non erano un sussulto moralistico, ma la descrizione della degenerazione dei partiti in partiti-Stato, che congiunti alla natura arcaica e “amministrativistica” della Pubblica Amministrazione italiana stavano creando una miscela esplosiva, da cui non siamo usciti: “I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal Governo. Hanno occupato gli enti locali e di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, la Rai-TV, alcuni grandi giornali. Il risultato è drammatico. Tutte le ‘operazioni’ che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica”.
Antonio Floridia: In economia è nota come la “legge di Gresham”: “la moneta cattiva scaccia quella buona”; e forse si può parlare anche di una forma di “selezione avversa”. Ecco, mi pare che nel PD sia accaduto questo. E’ chiaro che ciò che oggi rende sempre più difficile un vero rinnovamento del PD è una logica di autoriproduzione che, anche al di là delle buone o cattive intenzioni soggettive, agisce come una forza inerziale. C’è sempre il rischio di un avvitamento, molto pericoloso. Ci può essere la tentazione di “tirare a campare”: in fondo, si dice, siamo pur sempre il secondo partito del paese, abbiamo il 20% (o avevamo?), e siamo ben presenti in tutto il sistema dei poteri locali…Ma, nei panni del PD, starei molto attento: ci vuol poco ad innestare una spirale distruttiva…e lo si vede bene anche in una regione come la Toscana, in cui vivo oramai da oltre 45 anni: ho fatto in tempo a vedere la vera “Toscana rossa”, la Toscana di un grande Presidente di Regione come Gianfranco Bartolini, ex-operaio della Galileo, che con pazienza e con il pieno coinvolgimento del partito e delle comunità locali riuscì a realizzare una “grande opera” (la diga di Bilancino, in Mugello) che ha risolto il problema dell’acqua a Firenze; ho visto e studiato la Toscana dei distretti industriali di cui parlava l’economista Giacomo Becattini, la Toscana delle Case del popolo…Ebbene, in pochi anni si è rotto un sistema di alleanze sociali, si è incrinata una cultura politica diffusa, e oggi su 10 capoluoghi di provincia ben 7 sono governati dalla destra. E il 25 settembre il PD si è trovato confinato solo a Firenze e nella sua area provinciale.
Fabrizio Barca: Ma allora, venendo all’oggi, chi si candida a dirigere il PD, non può scantonare dalle tue considerazioni e proposte. Oltre a una visione convincente, oltre a valori moderni di emancipazione verso la giustizia sociale e ambientale, oltre a dare il senso della propria concretezza traducendo visione e valori in proposte con gambe robuste – tutte robe che il ForumDD offre a chi ha il coraggio della radicalità richiesto dalla radicalità della crisi – oltre a queste cose, deve convincere di avere un disegno organizzativo che i precedenti Segretari hanno promesso e non realizzato. Tu lo sai, Antonio, come la penso. Non sono affatto sicuro – e in tanti non siamo affatto sicuri – che il PD, per il groviglio che si è prodotto, per gli interessi dei suoi gruppi dirigenti, per tutte le cose che hai scritto e detto, possa diventare quel “partito della giustizia sociale e ambientale” che serve a liberare il fermento sociale e ambientale del paese. Un partito che recuperi alcune idee importanti delle socialdemocrazie (redistribuzione e welfare), ma che sia ben consapevole dei loro limiti e vada dunque oltre, affrontando anche il tema della pre-distribuzione, rompendo il diaframma pubblico-privato-sociale, aprendo una PA rinnovata alla società civile e del lavoro, mettendo al centro il contrasto congiunto delle subalternità di classe, genere, “razza” e ambientali e contrastando (con mezzi che esistono) l’insopportabile concentrazione del controllo sulla conoscenza. Ma poiché tutte queste cose, che segnano l’identità di un partito, una delle persone candidate le pensa, le pratica e le dice – Elly Schlein, si, proprio la persona contro cui è partito un diluvio di attacchi, mai, dico mai, sul merito – lasciami dire che se esiste una chance che il PD divenga una roba che ridia speranza ai più vulnerabili e agli scorati di ogni ceto, quella chance l’ha in mano lei. E allora tu le dici: convincici anche che, vinto il Congresso con le regole del gioco di oggi – durissima! – ti doterai di un’organizzazione che ti consenta di realizzare l’identità che hai in testa.
Antonio Floridia: Anch’io sono molto scettico sulle reali possibilità di auto-riforma del PD. E il modo – molto “frenato”, timoroso, “controllato” – con cui è stato concepito il percorso congressuale, ha fatto aumentare i miei dubbi. Rimanendo nei confini sempre più angusti che oggi che lo delimitano, il PD ha scarse possibilità di risollevarsi. D’altro canto, non condivido nemmeno un giudizio “metafisico”, definitivo, sulla “natura” del PD, quale viene espresso da tutti coloro che, fuori dal PD o a sinistra del PD, lo ritengono “oramai” perduto ad ogni buona causa della sinistra. Proprio perché si trova in una radicale crisi esistenziale, si può ancora sperare che questo partito sia colto da un sussulto, da una volontà estrema di sopravvivenza. I temi su cui i candidati in gara dovrebbero pronunciarsi sono quelli indicati. Non basta indicare i nuovi “contenuti” su cui caratterizzare il PD: se non cambia il modello di partito, se non cambia il suo modo di funzionare e di lavorare, il suo modo di decidere e di discutere, anche le migliori piattaforme rimangono prive di gambe su cui camminare. Io spero che lo si faccia. Peraltro solo così si potrà attivare e motivare quella “circolazione extra-corporea” che oggi è necessaria per rivitalizzare un organismo oramai stremato. Anche perché, se non cambia il modello di democrazia e di partecipazione, il partito non sarà mai in qualche modo “attrattivo”, anzi aumenteranno le spinte centrifughe. Mi capita spesso di sentire qualcuno obiettare: ma come mai nel PD non si riesce a convivere tra “diversi”, quando persino nel PCI coesistevano le posizioni più distanti? Già, ma forse si dimentica che il PCI era un partito con una sua identità e cultura politica (non a caso si chiamava “comunista”), e che adottava procedure di discussione fondate su un forte elemento di collegialità (il cosiddetto “centralismo democratico”, di cui parlo nel libro per contestare i molti luoghi comuni con cui viene evocato). Oggi, certo, non si può riproporre quel modello: ma se si vuole garantire una possibile coesistenza in un partito e anzi una proficua interazione tra le diverse tradizioni e forme della cultura politica di sinistra (non quella tra “riformisti” e “massimalisti”, che è solo ormai una caricatura; e non quella generica di tutti i “democratici”), allora occorre adottare, per la democrazia interna, un modello ispirato ai principi della democrazia rappresentativa e deliberativa: non quelli di una democrazia plebiscitaria, in cui alla fine conta solo il “leader” e, soprattutto, il seguito oligarchico che si porta appresso.
Antonio Floridia, dirige il Settore Politiche per la partecipazione e l’Osservatorio elettorale della Regione Toscana, ha presieduto la Società Italiana di Studi Elettorali, studioso della democrazia deliberativa e partecipativa, ha appena pubblicato “PD. Un partito da rifare? Le ragioni di una crisi” (Castelvecchi).
Fabrizio Barca, a lungo ricercatore e dirigente dello Stato, promotore (durante sua iscrizione 2023-15 al PD) con 15 circoli e oltre 30 “agenti di cambiamento” e studiosi di un progetto di riforma dell’organizzazione del PD “Luoghi Ideali”, oggi co-coordinatore del Forum Disuguaglianze Diversità.