Quel parallelo col mito di Churchill rende Kiev un muro anti-dittatura

Domenico Quirico La Stampa 23 dicembre 2022
Quel parallelo col mito di Churchill rende Kiev un muro anti-dittatura
Zelensky parla al congresso Usa, dopo aver regalato una bandiera ucraina a Nancy Pelosi e Kamala Harris

 

Un discorso, quando è vivo, brucia nelle sue parole ogni cronologia. Quel che conta è il bagliore che è capace di riflettere sui tempi futuri. In fondo non solo le catastrofi sono iniziate con alcune parole. È quel che accadde il 13 maggio del 1940, lunedì di Pentecoste, alla camera dei Comuni britannica. Winston Churchill, indomabile avversario dell’“appeasement’’ con le dittature, quando le pronunciò, era in carica da soli tre giorni. Le capitali europee cadevano sotto l’urto tedesco una dopo l’altra, il nemico si avvicinava, e pareva inarrestabile, a Parigi e alla Manica. Fu il discorso per preparare il Paese alla lotta incerta e feroce, quello del «non ho altro da offrire che sangue, fatica, lacrime e sudore».

Dopo il discorso del presidente ucraino Zelensky al Congresso americano il paragone sembra automatico: Zelensky come il premier britannico e ovviamente, per rovescio, Putin come Hitler.

Una assonanza certo è evidente, tentatrice. Perché non si possono ascoltare i due discorsi senza che l’ombra dei due dittatori sbattano di continuo la porta e se ne senta la minaccia correre via tra le parole con un agghiacciante cigolio di cingoli dei carri armati e di esplosioni di bombe. L’inferno è pur sempre l’inferno anche se si scavalcano i secoli.

Il ghigno dell’aggressore il primo ministro britannico nel 1940 l’ha conosciuto da vicino quanto il presidente ucraino nel febbraio di questo anno. Hitler era la paura esplicita, dichiarata (“il Reich millenario’’) e Putin l’angoscia che sbuca da una ben coltivata, enigmatica volontà di potenza e di vendetta. Forse la distanza è tutta qui. Un soffio gelido: ma in mezzo sta la volontà, di oggi e di ieri, di non arrendersi all’assurdo della prepotenza, di non farsi inghiottire dalla tentazione della rassegnazione.

In fondo è stata la genialità comunicativa di Zelenzky, ribadita ieri nel trionfo da “vedette” al Congresso, a proporci, e in qualche modo imporci, questa seducente sovrapposizione storica. Aiutato dai suggerimenti proprio di un mediocre erede di Churchill, l’ex premier inglese Johnson, che fu il primo a tracciare, appena scoppiata la guerra, nel coraggioso oligarca di Kiev assonanze resistenziali pari a quelle dell’ultimo leone dell’impero britannico.

Zelensky ha con metodo certosino vinto la guerra dell’immagine con l’aggressore Putin più facilmente di quella militare con la pur zoppicante armata russa. L’Ucraina non è più per l’Occidente, una periferica ex parte dell’Urss che non ha saldato i conti con il vecchio padrone di Mosca. È diventata l’intrepida barriera democratica contro l’assalto della autocrazia universale e la sua resistenza, piagata da mille ferite, tiene testa «a una mostruosa tirannia, insuperata nella lista oscura, deplorevole dei crimini umani».

Sono parole di Churchill nel 1940 ma potrebbe averle pronunciate ieri Zelensky, molti non se ne accorgerebbero. E Churchill avrebbe sottoscritto queste parole applaudite dal Congresso: «Questa battaglia non può essere ignorata con la speranza che l’oceano offra protezione. Non si può restare da parte e sentirsi al sicuro». La guerra del Donbass e la invasione russa, come nel 1939, si sono trasformate, giorno dopo giorno, in una lotta del Bene contro il Male, della luce contro le tenebre. Quasi una fatalità storica in cui l’unica soluzione possibile è la distruzione del Male.

Zelensky ha ragione a insistere sull’infernale orrore del ricatto putiniano. Eppure un popolo assalito dalla guerra non ha soltanto da difendere le proprie frontiere ma anche la propria ragione. Deve salvarla dalla allucinazioni delle ingiustizie e dell’odio, dalla sciocchezze che ogni flagello scatena e semina tra le parti. Non bisogna ravvisare nella guerra una fatalità. La guerra, anche questa, è frutto della debolezza dei popoli e della loro stupidità.

A ciascuno il suo compito: gli eserciti hanno quello di respingere l’aggressore, i politici, e gli uomini di pensiero quello di difendere la ragione, di impedire che anche dalla parte della giustizia la guerra diventi trionfi dell’istinto, vittoria della morte. Se si mettono al servizio della guerra possono, forse, essere strumenti utili per vincere ma rischiano di tradire lo spirito. Un giorno la Storia farà il conto di ciascuna delle nazioni in guerra e peserà la loro somma di errori, di bugie, di propaganda. Quella russa non sarà certo leggera. Ma quella ucraina? E la nostra?

Perché nel discorso di Zelensky non bisogna pesare solo ciò che è stato detto ma anche ciò che è stato taciuto. E qui compare uno spazio vuoto, le parole tregua, negoziato, pace. Zelensky al congresso ha ripetuto che l’unica strategia è la vittoria totale sulla Russia, a qualsiasi prezzo. E questo che vuole, o sarebbe meglio dire, esige, da un intimidito Biden costretto a fare l’elenco di quanto ha già dato e intende ancora dare in armi e denaro.

Una dura lezione della Storia è che la sofferenza non dà a chi la subisce, singolo o popolo, nessun privilegio. Quello che conta è ciò che ne fa.

 

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