L’attivismo di Zelensky mette in difficoltà un’Europa sofferente

Guido Moltedo il Manifesto 24 dicembre 2022
Biden tra l’aiuto riluttante a Kiev e la canaglia Trump
Il Congresso a braccia aperte con il leader ucraino ma a gennaio non sarà più a maggioranza democratica. La narrativa dell’eroe Zelenski e quella della canaglia Trump


Il Congresso americano che ha accolto Volodomyr Zelenski con onori e applausi riservati a un eroe e accordando al suo paese nuovi cospicui aiuti militari ed economici non sarà più lo stesso nel 2023: a gennaio s’insedieranno deputati e senatori eletti l’ 8 novembre.

Alla camera dei rappresentanti la maggioranza cambierà: non sarà più democratica, ma repubblicana, al senato continuerà a essere democratica, ma sempre di poco e con un paio di senatori democratici in aperto dissenso con la leadership del loro partito tanto da essere ormai considerati «indipendenti».

Biden aveva dunque un motivo dettato innanzitutto da «tempi politici» stretti, per accogliere a Washington il leader ucraino, con l’occhio rivolto non solo al prossimo cambio di maggioranza a Capitol Hill, ma anche all’esigenza di giocarsi la «carta Zelenski» per mettere ancora più in evidenza l’enorme gravità del tentativo di colpo di stato, da parte di Donald Trump, il 6 gennaio 2021, su cui proprio ieri s’è pronunciato il Select Committee incaricato di far luce su quegli eventi, la cui ricorrenza avverrà nel periodo di insediamento delle nuove camere. La performance del leader ucraino è infatti servita anche a questo, con la gran fanfara propagandistica che l’ha accompagnato, è servita a mettere in evidenza e in contrasto un Congresso, a maggioranza democratica, che riflette l’America compassionevolmente interventista, con l’America incarnata da Trump e sodali, intenta a smantellare quei valori e principi, arroccata in un sovranismo isolazionista, con evidenti slittamenti autoritari e xenofobi se non addirittura, come denuncia il Select Committee, golpisti.

La Casa Bianca e la maggioranza democratica hanno giocato abilmente la narrazione di un match simbolico tra Zelenski il combattente, anche negli abiti ostentati, che lotta per il suo paese, sotto l’ala protettiva e generosa dell’America, e la canaglia Trump che combatte contro il suo stesso paese, fino a metterne a rischio l’integrità democratica.

Dal punto di vista mediatico, la visita di Zelenski ha pertanto reso bene alla regìa americana. Biden incassa qualche punto in termini d’immagine e così i democratici, ma resta l’interrogativo di un’opinione pubblica sempre più restia a seguire il presidente quando ribadisce il sostegno a Kiev “for as long as it takes”, per tutto il tempo che occorrerà. I recenti sondaggi fotografano un paese sempre più riluttante a impegnarsi indefinitamente. Soprattutto gli elettori repubblicani. E il loro partito ha più volte ribadito che non intende dare un assegno in bianco a Zelenski.

Della complessità di questo quadro politico è sintomo una contraddizione evidente: i nuovi aiuti militari americani sono sì consistenti, però, al tempo stesso, delle batterie di missili Patriot promesse a Kiev solo una è destinata a essere inviata in tempi brevi. Come mai? E perché un simile sistema d’arma non è stato fornito prima, nei mesi scorsi, quando avrebbe agevolato grandemente la difesa antiaerea ucraina? Zelenski è comunque tornato a casa esibendo grande soddisfazione.

Certo, può vantare una consacrazione di forte rilievo, che però è più simbolica che politicamente consistente. Inoltre mostra sicurezza in un sostegno americano senza limiti basata su un pio desiderio più che su dati di realtà, quando afferma che anche la nuova maggioranza parlamentare continuerà negli aiuti all’Ucraina. Ammesso che continuino, ci saranno non poche strettoie, che andranno aumentando via via che si avvicina l’inizio della campagna elettorale per le prossime presidenziali.

Il Partito repubblicano – indispensabile in un approccio necessariamente bipartisan nei confronti della guerra in Ucraina – riprende quota in parlamento, dopo la riconquistata maggioranza alla House, ma resta ostaggio dell’ex-presidente, che pure azzoppato dall’inchiesta parlamentare e sempre più isolato nel Grand Old Party, dispone ancora di leve persuasive per non farsi ammazzare politicamente. Ron deSantis, il suo concorrente per la presidenza, è finito nel mirino di un comitato trumpista che contesta alcuni dei risultati elettorali nelle ultime elezioni per governatore della Florida. I metodi intimidatori usati verso i democratici vanno bene anche contro gli avversari interni. Un partito, in queste condizioni e peraltro riluttante, resta un partner inaffidabile in un cimento internazionale come il sostegno a Kiev. Una criticità che Zelenski sottovaluta.

Peraltro, nel suo calcolo politico manca la parte europea. Alzando l’asticella degli aiuti, l’America mette ancora più in difficoltà e in imbarazzo l’Europa, già sovraesposta politicamente, economicamente, militarmente nel conflitto. Se l’America dà sempre di più, l’Europa dovrà fare altrettanto? Il gioco acceleratore-freno di Biden – più aiuti, ma non tutti subito – sembra riflettere anche una certa cautela, nel timore di un’escalation che non risolverebbe il conflitto ma potrebbe produrre una divaricazione tra le due parti atlantiche. L’Ucraina ha bisogno esistenziale dell’America ma non può fare a meno dell’Europa, tanto meno di un’alleanza atlantica divisa. Ma intanto il suo iperattivismo sta producendo proprio questi effetti.

La visita di Zelenski in America segna dunque una svolta che nell’immediato è raccontata come storica ma che è in realtà solo un nuovo capitolo di una vicenda iniziata dieci mesi fa e di cui non si vede la fine, mentre politici e strateghi s’interrogano sull’impatto che avrà sul conflitto il lungo inverno che ora entra nella sua fase più severa.

 

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