7 Corriere della Sera Paolo Giordano e Elena Ferrante 23 dicembre 2022
Dialogo tra scrittori come sono stati questi tre anni?
«Mi sento immobile, senza nemmeno la solita spinta all’adattamento >>
L’autore di Tasmania e la misteriosa autrice de L’amica geniale riflettono sull’incrocio di realtà e immaginazione. E compiono insieme un viaggio attraverso l’isolamento, la guerra, il tempo. Quel «meraviglioso tremendo garbuglio» di “io” e “altro”. Che (forse) solo la letteratura sa dipanare
Ferrante:
«Ho imparato già da ragazza che ogni cosa ci può essere tolta con uno schiocco di dita»
«Temo la maschilizzazione ulteriore del femminile spacciata per liberazione»
«L’immagine trascina con sé l’adesso, i fatti mentre si compiono, le voci mentre risuonano…»
Giordano: Cara Elena Ferrante, La vita bugiarda degli adulti usciva alla fine del 2019. Con l’eccezione di alcune interviste e delle quattro lezioni che compongono I margini e il dettato, non abbiamo avuto suoi segnali artistici dall’interno dell’ultimo complicatissimo periodo. Mi piacerebbe sapere qualcosa su come lo ha vissuto, anzitutto dal punto di vista esistenziale, qual è stata la sua personale curva dell’emotività dall’inizio del 2020 a qui.
Ferrante «Per risponderle mi sono tornati in mente quei lunghi secondi tra veglia e sonno nel corso dei quali non sai dove ti trovi. Forse sei a letto, forse sei in piedi, cerchi una porta, una maniglia, e invece graffi con le unghie la parete. In questi tre anni è stato un po’ così, lo è ancora. Ma ora sto registrando un cambiamento non da poco, dovuto, temo, anche all’invecchiamento: quel riflesso che in genere mi ha sempre spinta a saltar su, ad aggrapparmi a qualcosa di solido — una maniglia, appunto: per riscoprirla, reinventarla — si è appannato. Mi sento immobile, senza nemmeno la solita spinta all’adattamento».
Giordano: Con l’irrompere della pandemia prima e l’invasione dell’Ucraina poi, a me è capitato di sperimentare momenti di estraneità verso la letteratura di invenzione. Come se l’impellenza del presente ci costringesse tutti a ripensare dalle fondamenta il patto tra chi scrive e chi legge, a riconsiderare la sospensione dell’incredulità come opzione possibile. Ne ha già parlato altrove, ma in questo frangente mi sembra ancora più rilevante tornare sull’idea che la finzione letteraria permetta un accesso più autentico alla verità. Vorrei sapere se questo tempo ha avuto ripercussioni su questa idea.
Ferrante «Non lo so. Forse mi sono interrogata un po’ di più su che cosa è la realtà per chi scrive, ma non ho fatto grandi passi avanti. La realtà continua ancor più che in passato a sembrarmi un meraviglioso tremendo garbuglio di “io” e “altro”, una matassa senza capo né coda sospesa tra esigenza di racconto e minaccia permanente di caos. Scrivere per me resta ancora un calarsi in quel garbuglio con una attrezzatura il più possibile adeguata. Ma una volta mi sentivo sicura che presto o tardi, a forza di insistere, ne sarei venuta fuori con pagine vere. Oggi quella fiducia si è molto ridotta. Per esempio faccio fatica a dire cos’è una “pagina vera”, formula che fino a poco tempo fa mi sembrava ovvia. È una riuscita applicazione di convenzioni collaudate? È quel particolare tipo di verità che è la verità letteraria, un congegno dove l’invenzione ha un peso rilevantissimo? È costruire un fantasioso tessuto verbale che non si rovini sotto il peso di grevi parole attuali come “pandemia”. “Ucraina”, “terza guerra mondiale”, ma anzi le sostenga con eleganza e, insieme, ne sveli il grezzo orrore? In questo momento propendo per il cavilloso resoconto di una qualche esperienza e basta. Ma non durerà, ho creduto troppo al ruolo dell’invenzione. Ciò che definiamo autentico mi pare in genere una mossa abile e insieme fortunata della capacità di inventare».
Giordano: Per via di un libro recente a cui ho lavorato, e per via dell’attualità, mi trovo a pensare molto alle armi nucleari. È stato questo a farmi saltare all’occhio, credo, che qua e là nei suoi scritti compaiono le parole «atomico» e «nucleare», spesso legate all’odiosità delle armi e al potenziale di distruzione che gli esseri umani hanno creato. Mi viene in mente anche il discorso di Elsa Morante, Pro o contro la bomba atomica, e ciò che Morante dice sull’arte come «il contrario della disintegrazione».
Ferrante «Per quel che riguarda la mia generazione, il tempo della guerra fredda è stato un efficace allenamento. Ho imparato già da ragazza che ogni cosa ci può essere tolta con uno schiocco di dita, e dagli Anni go, fino a oggi, fino al suo bel Tasmania, le cose non appaiono affatto migliorate. Quanto a Pro e contro la bomba, non si sa mai bene come e quando le parole dei testi che abbiamo amato scivolino nelle nostre. Posso dirle però che mi ha sempre colpita quel “pro” esibito già nel titolo. Ero così atterrita dalla guerra nucleare in agguato che mi pareva impossibile che qualcuno potesse essere e agire pro bomba. Eppure Morante dedicava pagine importanti a quello smarrimento della realtà che induceva persone pensanti — scriventi come lei le definiva, — a fiancheggiare anche senza accorgersene la disintegrazione del reale. Quel testo mi ha inoculato non tanto la paura di scrivere quanto di pubblicare. Morante insegnava che a ogni pagina mal concepita, male indirizzata, rischiamo la connivenza foss’anche inconsapevole con l’orrore».
Giordano: So che come formulazione è approssimativa, ma quanto e in che modo questo anelito alla distruzione è una prerogativa maschile?
Ferrante «Le rispondo malvolentieri perché in modo schematico. Il maschile ha pieni poteri e li ha conservati nei millenni plasmando la violenza secondo varie modalità e gradazioni, reinventandola, ritualizzandola, regolamentandola, lasciandola esplodere furiosamente. Le donne, in assenza di una loro forma, l’hanno subita, l’hanno appresa, l’hanno respinta, l’hanno usata sempre e soltanto dal di dentro della tradizione maschile. In questo senso non c’è, per ora, volontà di annientamento e non c’è strumento di annientamento che non sia profondamente segnato dalla storia del dominio maschile».
Giordano: Le sue storie — è risaputo —esprimono una partecipazione speciale verso i personaggi femminili, di ogni età ma soprattutto giovani. Anche quando ne mette in risalto le meschinità e le doppiezze, si ravvisa un senso speciale di protezione verso le ragazze, sempre esposte a un pericolo. Le capita di avere delle inquietudini nuove, specifiche rispetto al mondo in cui si trovano le ragazze oggi? E come direbbe che è cambiato, se è cambiato, il loro desiderio?
Ferrante «Temo la maschilizzazione ulteriore del femminile spacciata per liberazione. Mi pare cioè che sia in atto un processo nel quale il desiderio femminile, in ogni sua manifestazione, sia premiato, potenziato, messo al lavoro, solo se collocabile coerentemente in gerarchie maschili di realizzazione. Il rischio è un rinnovato asservimento della donna che passi proprio attraverso l’accesso ai poteri a patto che siano gestiti al modo maschile. In tal caso i vecchi pericoli si riproporrebbero anche con corpo e faccia di donna».
Giordano: Nelle sue storie l’istruzione scolastica ha un ruolo decisivo nel destino delle persone e, di nuovo, soprattutto in quello delle ragazze: talvolta viene perseguita con successo, talvolta con insuccesso, altre volte è impedita oppure diventa un filtro di superiorità e ipocrisia. In ogni caso è dirimente. Di sé ha scritto: «Posso dire con serenità che solo dopo la laurea ho cominciato a imparare sul serio. Prima non c’è stato apprendimento, ma solo una continua rispettosa obbediente esercitazione che serviva a occupare posti elevati nella gerarchia della bravura».
Mi piacerebbe avere un suo commento su quello che, almeno a me, pare un rigurgito patriarcale: l’accento sulla categoria del «merito», l’insistenza sulle performance, perfino l’umiliazione come elemento necessario di crescita.
Ferrante «Voglio sottolinearlo: per noi ragazze anche la scuola peggiore è stata un momento indispensabile di liberazione. Questo però non significa che la scuola che ci ha educate e istruite sia stata quella di cui avevamo bisogno. E rimpiangerla non mi sembra il caso. Non parliamo poi di chi ha nostalgia di parole come «punizione», «umiliazione», «merito». Sì, lei ha ragione, siamo di fronte a uno dei tanti rigurgiti patriarcali. Ma si tratta anche di un progetto politico pericoloso che immagina la crescita come un feroce disciplinamento da caserma e la buona riuscita scolastica come facile misurazione dell’obbedienza al risaputo».
Giordano: Questa conversazione avviene in occasione dell’uscita della serie di Edoardo De Angelis tratta da La vita bugiarda degli adulti. Si completa così l’elenco delle trasposizioni filmiche delle sue opere. Parlando degli adattamenti di Solaris in un articolo, lei ha usato un termine più interessante di trasposizione: ha parlato di «filiazione». Oggi tutte le opere letterarie sono esaminate come candidate potenziali per «figliare» e questo comporta dei rischi ovvi di adesione preliminare a modelli che poco hanno a che vedere con la letteratura stessa. Perciò mi sembra ancora più rilevante interrogarsi su quale sia lo specifico della letteratura, quello specifico inaccessibile ad altre forme. Qual è per lei?
Ferrante «Difficile dire: forse la parola è intimamente inserita in quell’intreccio tra dentro e fuori che anima i nostri organismi, sicché i suoi usi letterari esprimono come niente altro la condizione più segreta, più enigmatica, dell’animale umano. I libri quindi sono stimoli potenti per chiunque, la lettura smuove mondi interiori, li feconda, genera altri libri, opere d’arte, film. Non c’è da stupirsi, perciò, se il cinema fa da sempre ricorso alla narrativa. Il racconto per immagini è figlio della scrittura, che sia scrittura di una cronaca, di un racconto, di un romanzo di pregio o di consumo, di un soggetto o di una sceneggiatura. Va sottolineato piuttosto che nessun film esaurisce la sventagliata di suggestioni che offre costituzionalmente la scrittura letteraria con la sua plurivocità.
Il peggiore dei testi sollecita svariati possibili film, e il film che infine viene realizzato — caso mai bellissimo — è sempre il risultato di una riduzione. Il racconto per immagini, nel definire, nell’incarnare, scarta, accantona, a volte non capta le mille altre indicazioni che la scrittura custodisce. In compenso ricorre a invenzioni — nel caso direttamente sul set — che spesso sconquassano pericolosamente la struttura dei personaggi, le corrispondenze studiatissime della vicenda narrata, spezzando certe linee sottilissime, ma essenziali, di pura parola. Azzarderei che la specificità della letteratura è proprio questo “di più” al limite dell’immediatamente visibile che altre forme espressive sono costrette a scartare pur di realizzarsi. Non a caso, per quanto la potenza dello spettacolo abbia colonizzato l’immaginario di chi scrive e abbia condizionato le attese di chi legge, la parola resta per ora lo strumento più flessibile, più fine, per trattenere gli effetti innumerevoli e sempre sorprendenti degli urti della nostra interiorità contro il fuori, del fuori contro la nostra interiorità».
Giordano: A uno specifico della letteratura mi ha fatto pensare proprio la visione della serie: il napoletano, che nella sua prosa è al più una cadenza, diviene dominante. La narrazione cinematografica non può che aderire al presente della scena, anche laddove c’è una voce fuori campo che rievoca gli eventi. La libertà della scrittura mi sembra più assoluta in questo senso.
Ferrante «Sono d’accordo. L’immagine ha sempre, inevitabilmente, a che fare col presente Il film trascina con sé l’adesso, i fatti mentre si compiono, le voci mentre risuonano, le emozioni mentre trascorrono sui volti. Anche le parole, naturalmente, sono segnate dal presente della scena, ma sono anche, contemporaneamente, per loro natura, serbatoi stracolmi di passato. E poi i tempi grammaticali permettono dislocazioni audaci, l’indiretto libero concede esplorazioni vertiginose, eccetera. Ma basta, non bisogna esagerare con la nostra passione primaria. Amo anche il cinema e le sue conquiste di arte adulta e autonoma. Insistere nel confronto con la letteratura rischia di non rendergli giustizia. Ho provato spesso piacere nel vedere come i miei congegni di parole, le mie combinazioni di segni alfabetici, diventavano volti determinati, sfondi determinati, voci determinate. Bisogna guardarsi, per esempio, Valeria Golino nel lavoro di Edoardo De Angelis per avere la conferma immediata della energia creativa del cinema».