Paolo Giordano, «Smettere di fraintendersi». I nuovi desideri al maschile

Veronica Raimo Corriere della Sera 2 novembre 2022
Paolo Giordano: «Smettere di fraintendersi». I nuovi desideri al maschile
Nel suo nuovo romanzo, ambientato immediatamente prima e dopo la pandemia, lo scrittore si interroga su chi siamo una volta approdati alla cosiddetta età adulta. Qual è il peso specifico di una crisi quando sia il passato (come forma di nostalgia) che il futuro (come forma di utopia) sono altrettanto inattingibili?

 

«Fraintendevo soprattutto me stesso e i miei desideri, a quarant’anni non era normale, no?» scrive Paolo Giordano in Tasmania .

Dopo averci abituato a romanzi che seguono percorsi di formazione, che esplorano l’ambigua fragilità della giovinezza, che provano a sovvertire e reinventare il futuro, qui azzarda invece l’operazione inversa: chi siamo una volta approdati alla cosiddetta età adulta? Qual è il peso specifico di una crisi quando sia il passato (come forma di nostalgia) che il futuro (come forma di utopia) sono altrettanto inattingibili?

In questo senso, Tasmania – un romanzo lucidissimo e struggente – sembra interrogarsi su ciò che Divorare il cielo lasciava ancora aperto. «Sì, c’è una relazione tra i due romanzi – dice Giordano -. Se in Divorare il cielo lavoravo soprattutto sul non detto, sull’implicito, qui invece ho provato a lavorare sull’emersione come forma letteraria, sui codici e sul simbolismo del presente, tentando di reagire a quel presente. Ci sono persino argomenti simili, come il terrorismo.

In Divorare il cielo c’era la costruzione di un pensiero terrorista, mentre qui l’innesco della narrazione parte dagli attentati. Divorare il cielo era un romanzo che ragionava sull’utopia, qui il futuro non ha più quell’apertura». In quarta di copertina si parla di un romanzo «contemporaneo».

Paolo Giordano vive a San Mauro Torinese. E’ autore del romanzo La solitudine dei numeri primi, uscito nel gennaio del 2008, che vince nello stesso anno il premio Campiello Opera Prima

Per te cosa significa il termine «contemporaneo»?

«Riconosco nella parola uno sforzo dichiarato, esplicito, che non riguarda tanto i temi, quanto il modo, la postura. O forse riguarda la persona che immagino di fronte a me, la persona con cui sto condividendo questo tipo di racconto. Devo presupporre che si tratti di una persona che dà per scontate determinate cose, che abbia attraversato gli anni di cui parlo, che li abbia vissuti in un certo modo, che abbia un certo immaginario, nonché la capacità di passare – come dire – da un quadro all’altro, di assorbire una forma ibrida di narrazione: reportage, fiction, saggistica, giornalismo».

Come si crea questa capacità, e da che deriva secondo te?

«Credo sia frutto degli eventi esterni. Eventi di cui non parlo nel libro, e che forse non è nemmeno molto furbo esplicitare in un’intervista. Ma comunque sì, intendo gli anni della pandemia. È un libro su quel momento lì, anche se non lo affronto apertamente, visto che parlo dell’immediatamente prima e dell’immediatamente dopo. Ma la sensazione è quella: un senso di invasione, di paura, di fragilità, di cose impensate e impensabili. Questo per me è un modo completamente nuovo di scrivere: reagire dinamicamente agli accadimenti».

Sì, si sente molto questa reazione quasi inevitabile, sia emotiva che razionale: come l’hai trasformata poi in una possibilità di racconto?

«Uno degli effetti di quegli anni per me è stato che faticavo a leggere romanzi puri. Era come se non ci credessi più. La cosa più vicina alla narrativa che riuscivo a leggere era Aleksievič. E quindi anche nella forma, nello stile, sono andato in quella direzione. Ho cominciato a ibridare, a mescolare. Non nel senso in cui poteva intenderlo il postmodernismo, non come pastiche. Anzi, direi che per me lo sforzo era di rendere tutto omogeneo, se vuoi anche classico. Ma avevo bisogno di cercare un perno di realtà attorno cui far ruotare tutto quello che avevo imparato dai romanzi».

Non hai mai sentito la seduzione opposta? Provare a scrivere un romanzo di pura finzione come antidoto alla paura del presente? O credi che quella fiducia nel romanzesco sia perduta per la nostra generazione?

«Io credo di averla persa per sempre, e ho anche la sensazione che abbiamo toccato un apice da quel punto di vista. L’amica genialeè stato un apice. Che dobbiamo fare dopo? Le forme generazionalmente più vicine a noi, in termini di reinvenzione del romanzo, per me sono state Karl Ove Knausgård, Rachel Cusk, e soprattutto Valeria Luiselli con Archivio dei bambini perduti . Mi sono riletto anche Daniele Del Giudice, come forma di ibridazione. Però poi penso a un libro come 2666e mi viene da dire che è uno dei pochi esempi sopravvissuti alle bordate del reale, che in fondo è quello che cerchiamo: forme di libertà in grado di sopravvivere a quello che ci sembra perduto, finito».

Nel libro il tuo perno di realtà è legato all’io: un io affine al tuo, uno scrittore borghese, affermato, con una formazione da fisico. Se prendiamo Carrère, quando si impone come personaggio all’interno dei suoi libri, lo fa sempre con un portato di narcisismo, di assertività, mentre mi sembra che tu ti sia quasi voluto sottrarre da quel ruolo. Sentivo una sorta di pudore…

«È vero, anche tra le varie stesure, i momenti in cui ero più esplicito rispetto a un mestiere – perché scrivere è a tutti gli effetti anche un mestiere – il “me scrittore” era una cosa che mi imbarazzava profondamente. Mi viene in mente quando sono andato a farmi la carta di identità, poco dopo il mio esordio, e ho detto quella parola – “scrittore” – sentendomi un cretino. Ho un pudore, un imbarazzo: ogni volta che la vedo in pagina, mi viene da sottrarla. Poi c’è un motivo non soltanto legato a questo disagio. E cioè che per me questo romanzo è un po’ una decostruzione del maschile dall’interno. Io probabilmente sono un maschile sui generis, lo sono sempre stato, ho sempre lavorato di occultamento su questo aspetto, con una strategia di evitamento, ma poi quando la realtà diventa terribile come quella che abbiamo vissuto, la cosa ha anche un effetto liberatorio. Cioè, rispetto a quella realtà assurda, possibile che dobbiamo ancora stare lì appresso a queste schermaglie con noi stessi?».

E come metti in relazione questa decostruzione del maschile con la figura dello scrittore da cui cerchi di sottrarti?

«L’egotismo dello scrittore è quella forma di maschile molto egocentrico, assertivo, un po’ vanesio, che io patisco e non sono, che non mi corrisponde. E quindi la domanda era: può un maschile più frammentato, problematico essere altrettanto interessante e affascinante per supportare una narrazione? Poi non voglio nemmeno fare confronti con Carrère, perché l’operazione stessa rischia di sembrare machista, ma diciamo che nel suo caso l’io è l’oggetto dell’interesse, nel mio caso è una specie di cardine per raccontare il fuori. A me interessava il fuori: gli amici, gli scienziati, la giornalista, la moglie, tutti gli altri personaggi del libro. L’io è stato quasi un intralcio. Mi sono frequentato abbastanza, non avevo voglia di frequentarmi anche in scrittura».

In effetti ho trovato i personaggi femminili con una loro soggettività molto forte. È una cosa che ho sempre notato nei tuoi romanzi, ma è anche una cosa rara nei libri scritti da uomini.

«Perché l’altro sesso è principalmente proiettivo. Io l’ho capito molto leggendo quel libro su Cernobyl di Aleksievič, ho capito cosa significava un io in ascolto. Ma poi in fondo l’ho sempre fatto, proprio per quella questione dell’imbarazzo».

Nel libro c’è una dialettica costante tra letteratura e scienza, che in fondo è una dialettica che ti riguarda anche nella vita. Ma se rispetto alla figura dello scrittore hai lavorato in termini di sottrazione, nei confronti delle figure degli scienziati – penso al personaggio di Novelli – hai messo in scena tutta la loro dedizione, l’accanimento, la passione. È una forma di nostalgia verso quel mondo?

«No, penso sia più una questione di immaginario, l’idea dello scienziato resta più pura rispetto a quella dello scrittore, più integra. L’idea germinale della storia è nata proprio da Novelli, volevo rovesciare lo stereotipo che vede lo scienziato come un essere superiore, equanime, che osserva i dati e ci scorge dentro solo la verità. Non è così. Anche la scienza è intrisa di umano, di fallibilità umana…».

E di rosicamenti…

«E di rosicamenti, sì, o di inadeguatezze. Perché alla fine Novelli è un uomo inadeguato, con tutta la sua cultura, la sua intelligenza, con il suo vitalismo estremo che finisce per abbagliarlo. Ma è comunque uno scienziato serio. Ora che me la poni in questi termini, forse non sarei mai riuscito a fare una cosa del genere con uno scrittore. Magari la mia anima è ancora più in sintonia con quella di uno scienziato».

Pensando ai romanzi che hanno messo la scienza al centro della narrazione, mi vengono in mente libri spesso frenetici, fagocitanti e iperbolici anche nello stile, persino deliranti. Forse perché è difficile parlare di scienza senza trasformarla in un’ossessione, e questo si riverbera nella forma. A me sembra che tu non hai scelto né il delirio, né l’indecifrabilità, dal punto di vista stilistico…

«Ma io volevo fare più un libro sugli scienziati che sulla scienza. Anche questo è stato una reazione, perché c’è stata questa irruzione di figure di scienziati nella vita pubblica. Li osservavo, pensavo che sarebbero potuti essere miei colleghi in una vita appena diversa. Però pensavo pure…, vedi quegli alberi lì sopra? (indica delle piante cresciute sopra una casa abbandonata alle nostre spalle, ndr ), quello lì è tutto ailanto, una specie invasiva, ne parlo a un certo punto nel libro. È un aspetto che volevo raccontare. Quando ho letto Mircea Cărtărescu è stata una lettura che un po’ mi ha liberato. Un’altra è stata Benjamin Labatut. Ho visto che la scienza, al di là del tecnicismo, ti apre degli squarci sul visionario che poche altre cose ti aprono. Io non l’avevo mai utilizzata in questo senso, l’avevo usata metaforicamente nella Solitudine dei numeri primi, Divorare il cielo è un libro che ha un forte impianto scientifico, ma qui per la prima volta ho percorso questo spazio più visionario: l’idea che l’ailanto può diventare un’ossessione per una persona tanto da scatenare una crisi psicotica».

Sì, però poi tu nello stile non sei psicotico, anzi tutto il contrario…

«Perché non sopporto la maniera, in qualsiasi direzione. Alla fine scrivere è schivare la maniera in un modo o nell’altro, e a me piace molto la chiarezza. Forse è anche un mio limite».

Cartarescu non è proprio il simbolo della chiarezza…

«Sì, ma negli altri accetto l’esibizione tecnica, il virtuosismo, mi piace; è con me che sono sempre più severo».

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