Dario Di Vico Corriere della Sera 27 dicembre 2022
Il Paese è meno populista ma chiede efficienza ed equità
La società è diventata più moderata, però è necessario cercare soluzioni per salute, affitti, scuola e inflazione
Il dibattito giornalistico sul post-populismo, partito da una provocazione del Rapporto Censis, si è impantanato. Considerata la chiave che aveva utilizzato per svilupparsi molto probabilmente non poteva che andare così: se il quesito infatti diventa «le forze più o meno dichiaratamente populiste hanno ancora ampi margini di consenso?», la risposta non può che essere affermativa. Ma allora agli analisti non resterebbe che consultare i sondaggi e chiudere baracca e burattini.
Per ottenere risultati più ricchi della mera risposta a un sondaggio bisogna aver voglia di indagare il sottostante della politica, chiedersi in sostanza come è cambiata la domanda sociale almeno nell’arco che va dal massimo risultato raggiunto dalle forze populiste, la formazione del governo gialloverde, all’esito delle elezioni del 25 settembre. C’è la rabbia che caratterizzava l’Italia del 2018? C’è la paura degli immigrati che favorì l’ascesa di Matteo Salvini nel gradimento degli italiani? C’è la contrapposizione popolare all’Europa presentata come matrigna e affamatrice? C’è nelle categorie economiche il dubbio che una politica autarchica sia la ricetta giusta per l’Italia?
Potrei continuare con altrettante domande ma già solo dai punti citati emerge con chiarezza come in cinque anni nell’opinione degli italiani siano profondamente cambiate alcune coordinate di fondo. Solo un flash: perché la Lega di Salvini durante il governo Conte 1 correggesse la sua impostazione autarchica ci vollero le manifestazioni torinesi pro-Tav, mentre oggi nessuno in quel partito — pur in profondo travaglio — si sogna di mettere in discussione l’aggancio del nostro sistema produttivo al triangolo manifatturiero con Francia e Germania. Sull’altro versante, quello dei Cinque Stelle, basterebbe ricordare come il primo provvedimento dell’allora ministro del Lavoro Luigi Di Maio (il decreto Dignità) fosse diretto a combattere i contratti a termine mentre negli ultimi mesi abbiamo assistito a una tendenza delle imprese alla stabilizzazione dei posti di lavoro.
Insomma tanta acqua è defluita e la lista dei problemi aperti è stata riscritta dagli avvenimenti. Pensate solo a come il tema dell’inverno demografico e la difficoltà a invertire il ciclo della denatalità stia mutando, seppur lentamente, il mood degli italiani nei confronti dell’immigrazione. E se volessimo prendere in considerazione forse la capolista dei problemi, l’inflazione, potremmo tranquillamente concludere che non c’è stata rabbia o tensione sociale versus l’aumento vertiginoso dei prezzi e la temutissima rincorsa prezzi-salari non è mai partita. Come giustamente ha messo in rilievo il Censis non è che gli italiani abbiano chiuso gli occhi e quindi non ci siano «insopportazioni» verso gli eccessi, le disparità e l’ostentazione di opulenza ma sono tutti sentimenti che «non possono essere frettolosamente liquidati con l’epiteto di populisti». È un altro registro. La società è diventata più moderata, non ha nessuna voglia di prendere i forconi ma non per questo rinuncia a chiedere efficienza ed equità.
Pensiamo a due temi che si propongono quotidianamente all’attenzione delle famiglie: la salute e gli affitti. C’è consapevolezza che il nostro sistema sanitario stia sfarinandosi, che anche il solo parlare telefonicamente con il proprio medico di base sia assurto a privilegio, che pronto soccorso sia sempre più sinonimo di odissea, che — per farla breve — si stia producendo una forte polarizzazione sociale nell’ambito della salute. La dinamica degli affitti nelle grandi città non ha ricevuto la stessa attenzione ma la merita. Le due città più dinamiche del Paese, Milano e Bologna, ovvero quelle che paiono puntare più intensamente sull’economia della conoscenza sono anche quelle che taglieggiano con affitti esosi i talenti che vorrebbero/dovrebbero attrarre. È una contraddizione esplosiva perché avviene lungo il percorso di quella «via alta della competitività» che tutti invochiamo per il futuro del Paese. Ebbene quella via sarà alta ma tende a restringere gli accessi e non, come recitavano i sacri testi del pensiero dem, ad accrescere l’inclusione.
So che ogni scelta, ogni flash della realtà sociale è di per sé arbitrario e si potrebbero portare molti altri esempi, forse anche più calzanti, ma mi preme sostenere che se quattro anni fa si poteva abbinare quasi in automatico al sostantivo società l’aggettivo populista, oggi l’operazione è decisamente più discutibile. Non so se davvero è la malinconia «a definire il carattere degli italiani» come sostiene il Censis perché, ad esempio, colpisce molto la voglia di mobilità che in questi mesi ha portato i nostri connazionali a riempire aerei, treni, alberghi e ad affollare eventi, mostre, esibizioni sportive. Così come colpisce la ricerca che coinvolge le persone che frequentiamo attorno al tema del lavoro, della sua qualità, di una sua rinnovata manifestazione di senso. È una domanda sociale populista quella che si palesa con queste evidenze? Non direi.
Altra cosa è se noi dal campo dell’indagine sociale volgiamo l’attenzione alla mediazione politica e intellettuale. È qui che non è maturata ancora una capacità di intermediare le nuove domande della società post-Covid, di superare la stagione populista. Lo vediamo sia nelle acrobazie delle forze politiche che hanno vinto le elezioni e che pensano di giocare a specchio con il consenso sociale agitando temi giudicati astrattamente idonei, lo vediamo ancor di più nei partiti usciti sconfitti che non sanno da che parte guardare per rimettersi in cammino. È sicuramente vero che il centro-destra conserva una rendita elettorale dovuta alla precedente ondata populista caratterizzata dalla rivolta del piccolo contro il grande, del presente contro il futuro, del vissuto contro il pensato (citazione da Giovanni Orsina) ma siamo sicuri che anche queste differenze, queste liste non debbano essere aggiornate alla luce dei cambiamenti che attraversano quotidianamente la società e scardinano alcune convenzioni? Più che dedicarsi all’oroscopo del populismo non è più utile ricominciare dalle ricette per salute, affitti, scuola e inflazione? È in quell’esercizio che si incontra la società e si creano le vere maggioranze.
Il Paese è meno populista ma chiede efficienza ed equità
Dario Di Vico Corriere della Sera 27 dicembre 2022
Il Paese è meno populista ma chiede efficienza ed equità
La società è diventata più moderata, però è necessario cercare soluzioni per salute, affitti, scuola e inflazione
Il dibattito giornalistico sul post-populismo, partito da una provocazione del Rapporto Censis, si è impantanato. Considerata la chiave che aveva utilizzato per svilupparsi molto probabilmente non poteva che andare così: se il quesito infatti diventa «le forze più o meno dichiaratamente populiste hanno ancora ampi margini di consenso?», la risposta non può che essere affermativa. Ma allora agli analisti non resterebbe che consultare i sondaggi e chiudere baracca e burattini.
Per ottenere risultati più ricchi della mera risposta a un sondaggio bisogna aver voglia di indagare il sottostante della politica, chiedersi in sostanza come è cambiata la domanda sociale almeno nell’arco che va dal massimo risultato raggiunto dalle forze populiste, la formazione del governo gialloverde, all’esito delle elezioni del 25 settembre. C’è la rabbia che caratterizzava l’Italia del 2018? C’è la paura degli immigrati che favorì l’ascesa di Matteo Salvini nel gradimento degli italiani? C’è la contrapposizione popolare all’Europa presentata come matrigna e affamatrice? C’è nelle categorie economiche il dubbio che una politica autarchica sia la ricetta giusta per l’Italia?
Potrei continuare con altrettante domande ma già solo dai punti citati emerge con chiarezza come in cinque anni nell’opinione degli italiani siano profondamente cambiate alcune coordinate di fondo. Solo un flash: perché la Lega di Salvini durante il governo Conte 1 correggesse la sua impostazione autarchica ci vollero le manifestazioni torinesi pro-Tav, mentre oggi nessuno in quel partito — pur in profondo travaglio — si sogna di mettere in discussione l’aggancio del nostro sistema produttivo al triangolo manifatturiero con Francia e Germania. Sull’altro versante, quello dei Cinque Stelle, basterebbe ricordare come il primo provvedimento dell’allora ministro del Lavoro Luigi Di Maio (il decreto Dignità) fosse diretto a combattere i contratti a termine mentre negli ultimi mesi abbiamo assistito a una tendenza delle imprese alla stabilizzazione dei posti di lavoro.
Insomma tanta acqua è defluita e la lista dei problemi aperti è stata riscritta dagli avvenimenti. Pensate solo a come il tema dell’inverno demografico e la difficoltà a invertire il ciclo della denatalità stia mutando, seppur lentamente, il mood degli italiani nei confronti dell’immigrazione. E se volessimo prendere in considerazione forse la capolista dei problemi, l’inflazione, potremmo tranquillamente concludere che non c’è stata rabbia o tensione sociale versus l’aumento vertiginoso dei prezzi e la temutissima rincorsa prezzi-salari non è mai partita. Come giustamente ha messo in rilievo il Censis non è che gli italiani abbiano chiuso gli occhi e quindi non ci siano «insopportazioni» verso gli eccessi, le disparità e l’ostentazione di opulenza ma sono tutti sentimenti che «non possono essere frettolosamente liquidati con l’epiteto di populisti». È un altro registro. La società è diventata più moderata, non ha nessuna voglia di prendere i forconi ma non per questo rinuncia a chiedere efficienza ed equità.
Pensiamo a due temi che si propongono quotidianamente all’attenzione delle famiglie: la salute e gli affitti. C’è consapevolezza che il nostro sistema sanitario stia sfarinandosi, che anche il solo parlare telefonicamente con il proprio medico di base sia assurto a privilegio, che pronto soccorso sia sempre più sinonimo di odissea, che — per farla breve — si stia producendo una forte polarizzazione sociale nell’ambito della salute. La dinamica degli affitti nelle grandi città non ha ricevuto la stessa attenzione ma la merita. Le due città più dinamiche del Paese, Milano e Bologna, ovvero quelle che paiono puntare più intensamente sull’economia della conoscenza sono anche quelle che taglieggiano con affitti esosi i talenti che vorrebbero/dovrebbero attrarre. È una contraddizione esplosiva perché avviene lungo il percorso di quella «via alta della competitività» che tutti invochiamo per il futuro del Paese. Ebbene quella via sarà alta ma tende a restringere gli accessi e non, come recitavano i sacri testi del pensiero dem, ad accrescere l’inclusione.
So che ogni scelta, ogni flash della realtà sociale è di per sé arbitrario e si potrebbero portare molti altri esempi, forse anche più calzanti, ma mi preme sostenere che se quattro anni fa si poteva abbinare quasi in automatico al sostantivo società l’aggettivo populista, oggi l’operazione è decisamente più discutibile. Non so se davvero è la malinconia «a definire il carattere degli italiani» come sostiene il Censis perché, ad esempio, colpisce molto la voglia di mobilità che in questi mesi ha portato i nostri connazionali a riempire aerei, treni, alberghi e ad affollare eventi, mostre, esibizioni sportive. Così come colpisce la ricerca che coinvolge le persone che frequentiamo attorno al tema del lavoro, della sua qualità, di una sua rinnovata manifestazione di senso. È una domanda sociale populista quella che si palesa con queste evidenze? Non direi.
Altra cosa è se noi dal campo dell’indagine sociale volgiamo l’attenzione alla mediazione politica e intellettuale. È qui che non è maturata ancora una capacità di intermediare le nuove domande della società post-Covid, di superare la stagione populista. Lo vediamo sia nelle acrobazie delle forze politiche che hanno vinto le elezioni e che pensano di giocare a specchio con il consenso sociale agitando temi giudicati astrattamente idonei, lo vediamo ancor di più nei partiti usciti sconfitti che non sanno da che parte guardare per rimettersi in cammino. È sicuramente vero che il centro-destra conserva una rendita elettorale dovuta alla precedente ondata populista caratterizzata dalla rivolta del piccolo contro il grande, del presente contro il futuro, del vissuto contro il pensato (citazione da Giovanni Orsina) ma siamo sicuri che anche queste differenze, queste liste non debbano essere aggiornate alla luce dei cambiamenti che attraversano quotidianamente la società e scardinano alcune convenzioni? Più che dedicarsi all’oroscopo del populismo non è più utile ricominciare dalle ricette per salute, affitti, scuola e inflazione? È in quell’esercizio che si incontra la società e si creano le vere maggioranze.