La stagione post-populista e i limiti dei progressisti

Giovanni Orsina La Stampa 27 dicembre 2022
La stagione post-populista e i limiti dei progressisti
La sinistra ha una base sociale forte ma per competere deve superare la divisione di classe del XXI secolo: quella tra chi pensa di poter trarre vantaggio dalla globalizzazione e chi teme di venirne penalizzato

 

Lunedì 12 dicembre ho pubblicato su questo giornale un articolo intitolato La nuova politica post-populista. Vi ho proposto due tesi. La prima, che il populismo abbia rappresentato «una rivolta del piccolo contro il grande, del concreto contro l’astratto, del vicino contro il lontano, del presente contro il futuro, del mondo vissuto contro il mondo pensato». O, per dirla con Stefano d’Arrigo, del “vistocogliocchi” contro il “sentitodire”. La seconda, che l’ondata populista non si sia in realtà esaurita ma abbia allagato il Palazzo, e che la politica post-populista sia quindi tenuta a farci i conti. A partire da queste due premesse, quale mai potrà essere il volto di una sinistra post-populista?

Nella stagione del post-populismo, il progressismo parte da una posizione svantaggiata. Per tre ragioni. Fin dalla rivoluzione francese, innanzitutto, quella progressista è stata la cultura dell’astratto, del mondo pensato e del sentito dire – mentre col concreto, il mondo vissuto e il visto con gli occhi si sono schierati i conservatori. «Sono le circostanze», scrive il capostipite del conservatorismo anglosassone, Edmund Burke, «a conferire l’aspetto distintivo e l’effetto particolare a ogni principio politico. Sono le circostanze a rendere benefici o nocivi al genere umano i programmi civili e politici». Le circostanze: concrete, vissute, viste con gli occhi. La ribellione populista è naturalmente sbilanciata verso il conservatorismo e contro il progressismo, allora. E non per caso si è espressa in prevalenza, seppure non esclusivamente, attraverso forze politiche collocate a destra.

La cultura progressista contemporanea, in secondo luogo, è incapace di apprezzare le ragioni del populismo, precondizione prima di qualsiasi dialogo con gli elettori populisti. Quella cultura – come ha notato da ultimo Luca Ricolfi in La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra (Rizzoli) – si regge sulla fede nel valore intrinsecamente positivo del cambiamento e sulla convinzione conseguente che, se il cambiamento produrrà degli effetti negativi, questi non saranno curati né rallentando il corso della storia né tanto meno tornando indietro, ma accelerando il passo della trasformazione. Ma è proprio questa fede quel che i populisti rinnegano. Da qui l’atteggiamento di rifiuto radicale, anzi demonizzazione, anzi derisione che la cultura progressista assume nei confronti dei populisti: la sua strategia non prevede alcun dialogo, ma, al contrario, l’erezione di un muro invalicabile che tagli fuori gli infedeli fin quando il benefico corso della storia non li avrà superati.

Ma come? – si dirà – Le élite politiche in generale, e quelle progressiste in particolare, non soltanto non hanno eretto alcun muro contro il populismo, ma gli sono andate fin troppo incontro. Basti pensare, per non prendere che un esempio, allo scellerato taglio dei parlamentari che la Camera dei deputati ha approvato in ultima lettura l’8 ottobre del 2019 con ben 553 voti favorevoli. Come ha giustamente scritto Marco Follini su questo giornale il 17 dicembre, in risposta al mio intervento del 12, «a inoculare il virus demagogico nelle fibre delle nostre democrazie non erano stati tanto i genuini predicatori della protesta popolare, quanto una parte non piccola del nostro stesso establishment». Ma, prosegue Follini, il tentativo di addomesticare la bestia populista non è consistito in «una vera fatica politica», nello sforzo autentico di comprendere e affrontare le ragioni della rivolta, quanto piuttosto in uno «spettacolo finto… un astuto dosaggio di ginocchia piegate, fronti corrucciate e ditini ammonitori inutilmente alzati». Le élite sono sì andate incontro agli elettori imbufaliti, insomma, ma senza prenderli sul serio, anzi convinte di poterli raggirare e ammansire. Col bel risultato che quelli si sono imbufaliti ancor di più.
La sinistra contemporanea, in terzo luogo, trova una solida base elettorale nei ceti sociali del sentito dire: i lavoratori intellettuali dei centri urbani che per vivere pensano il mondo, e per i quali il mondo vissuto coincide perciò col mondo pensato. In un’epoca di grande fluidità come la nostra si tratta forse del blocco sociale più stabile e politicizzato che ci sia. Resta però minoritario, soprattutto in Italia. La sinistra allora, se vuol essere competitiva, deve conservare questa sua base elettorale naturale ma al contempo riuscire a pescare anche, e abbondantemente, al di fuori di essa. Ovvero deve saper superare la nuova divisione di classe del ventunesimo secolo, quella che separa quanti pensano di poter trarre vantaggio dai processi di globalizzazione da chi è convinto invece di esserne penalizzato, il gruppo sociale centrale dai gruppi sociali periferici.

Queste essendo le premesse, non possiamo certo sorprenderci se, nella stagione post-populista, il campo progressista italiano è andato in pezzi. Nell’ultimo decennio il Movimento 5 stelle ha espresso la rivolta populista del piccolo contro il grande e del concreto contro l’astratto nella sua massima purezza. Gli osservatori dello spazio pubblico italiano, cittadini del mondo pensato, per lo più non se ne sono resi conto (a cominciare da chi scrive), ma si è trattato di un passaggio necessario, per quanto assai caotico e costoso: denunciando lo strappo fra le istituzioni e la vita quotidiana degli italiani qualunque e provando a rabberciarlo alla bell’e meglio, il Movimento ha svolto una funzione essenziale per la nostra democrazia. Non per caso dal suo fallimento (inevitabile, per altro) è scaturita un’astensione record al 36 per cento. Dalle ceneri del primo M5s è nato l’attuale Movimento, il partito di Giuseppe Conte, che diversamente dal grillismo delle origini si è collocato saldamente a sinistra, ma del grillismo delle origini ha pure ereditato la capacità di rappresentare la rivolta populista. Che cosa c’è di più tangibile, immediato, visto con gli occhi del reddito di cittadinanza, del resto? Oggi, così, il M5s si propone credibilmente di rappresentare un progressismo post-populista per i ceti sociali periferici.

Il Terzo polo di Matteo Renzi e Carlo Calenda incarna un progressismo post-populista che per il momento si rivolge soprattutto ai ceti sociali centrali. È progressista, il Terzo polo, perché si colloca saldamente nel campo globalista. Ma è pure post-populista perché tiene bassa l’intensità ideologica e alta quella programmatica. Cerca di restar lontano dalle astrazioni e dalle genericità e si sforza di mostrare come i processi di trasformazione del mondo globale, se amministrati con intelligenza, possano avere un impatto positivo sul mondo vissuto delle persone qualunque, possano portar loro miglioramenti tangibili.

Fra Conte da un lato e Renzi e Calenda dall’altro, com’è ben noto, sta il Partito democratico. E ci sta sulla base di un’intuizione corretta: la necessità, per il bene del campo progressista ma anche dell’Italia, di costruire a sinistra un’alleanza vitale che comprenda sia il gruppo sociale centrale sia alcuni di quelli periferici. L’intuizione è corretta, ma l’operazione difficilissima, perché si tratta di trascendere la nuova divisione di classe del ventunesimo secolo. E visto che si trova in uno stato di estrema fragilità culturale e politica, il Pd corre il rischio di subire quella divisione anziché ricomporla. Non la ricomporrà di certo, in ogni caso, se non selezionerà una leadership e un gruppo dirigente che sappiano comprendere a fondo, seriamente, le ragioni della rivolta populista, e ricostruire un rapporto concreto col mondo vissuto dei ceti periferici.

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