Maurizio De Giovanni La Stampa 30 dicembre 2022
Pelé e Maradona, le due leggende dell’epoca dolce dei nostri sogni
Simbolo di purezza e fantasia in un calcio sempre più dominato dall’algoritmo. Con la morte del brasiliano si spegne una parte del cuore che aveva le ali
Diego Armando Maradona e Pelé in un momento di divertimento e spensieratezza
Ce ne saranno di più forti, vedrete. Sarà inevitabile, man mano che cambieranno schemi di gioco e metodologie di allenamento, e gli statistici misureranno tutto il misurabile, scomponendo ogni gesto tecnico in algoritmi e smantellando la fantasia in processi neurologici e collegamenti sinaptici. Ce ne saranno di più forti, man mano che la cultura fisica e l’alimentazione ipercontrollata produrranno performances esaltanti, e il calciatore robot percorrerà i cento metri del campo palla al piede in meno di dieci secondi netti, e lo studio sui materiali produrrà scarpe e palloni in grado di mantenere una traiettoria precalcolata per trentadue virgola sette metri, andando a infilarsi esattamente all’incrocio dei pali. Ce ne saranno di più forti, e compiranno gesta mirabili immortalate da settantaquattro telecamere e certificate dal VAR, al suono delle voci esaltate di telecronisti sensazionalisti dalle mirabolanti, disarticolate urla di giubilo.
Ce ne saranno di più forti, e saranno pettinati e tatuati e brillantinati e orecchinati e griffati e bellissimi a vedersi, immersi in prodotti sponsorizzati e circondati da un’aura di vaga antipatia, arroganti e sprezzanti, circondati da auto costruite apposta per loro, e saranno seguiti da stuoli di agenti, procuratori, curatori d’immagine e psicoterapeuti, allenati da preparatori personali. Ce ne saranno di più forti, e incontreranno raramente i compagni che avranno l’unico malinconico ruolo comprimario di superare questo problema del calcio: essere purtroppo uno sport di squadra e aver quindi bisogno anche di altri dieci, o nove, o otto o sette figuranti che consentano a loro, i più forti, di fare la loro porca figura, scintillando come comete nel cielo di Natale.
Sì, probabilmente ce ne saranno di più forti. Eppure chi, come chi scrive e come tutti voi che leggete, c’era sa bene che il cuore saltava un battito e che nessun fotogramma o filmato in 4k e nessuna alta definizione potrà mai valere quanto il racconto commosso, e rigorosamente orale, delle gesta di quei due che hanno portato uno sport come gli altri a diventare il Calcio, quella cosa che ti costringe a restare a occhi, orecchie, bocca e cuori spalancati a ricevere emozioni, come nient’altro e nessun altro spettacolo riesce a fare.
Raccontava che si dipingeva i piedi di nero, per fingere le scarpette che non poteva avere. Che metteva della carta in un vecchio calzino, per fingere il pallone che non poteva avere. Che immaginava le linee attraverso le mura, per fingere il campo che non poteva avere.
E l’altro, dello stesso continente e di un paese rivale, anni dopo avrebbe finto di essere più grande e più alto, e avrebbe giurato da bambino che sarebbe salito sul tetto del mondo, lui che a stento ce l’aveva sulla testa un tetto, ed era di lamiera che bolliva al sole. Tutt’e due, il brasiliano e l’argentino, dal sud del mondo e da periferie senza un centro, tra cento e mille bambini con lo stesso sogno, tutt’e due fino in cima, per un calcio che diventava Calcio e che risuonava di parole senza immagini che diventavano leggenda.
Perché, sapete, tutti noi che oggi piangiamo la fine di un tempo, la conclusione di un’epoca, siamo consapevoli di averne fatto parte. Di essere stati in volo e in sospensione per colpire di testa, vincendo un mondiale non contro avversari ma contro il diventare vecchi. Siamo certi che entrambi, il brasiliano e l’argentino, hanno vissuto una parentesi all’interno di un sogno e che il sogno eravamo noi. È questo che ne scolpisce la grandezza, è questa l’unicità che nessun Ronaldo e nessun Messi, nessun Mbappè e nessun Pincopallo che calcherà i terreni semisintetici di ultima generazione potrà mai replicare. Perché, vedete, nessun video tridimensionale avrà mai lo spessore di un sogno.
Dice che Pelè, ci raccontavamo alle elementari, ha segnato con una rovesciata da metà campo. Dice che Maradona ha dribblato tutti e undici gli avversari, e pure un paio di compagni, ci confidavamo nei cortili delle ricreazioni. Dice che Pelè ha segnato palleggiando e senza far toccare terra al pallone per quaranta metri. Dice che Maradona ha fatto due gol di rabona nella stessa partita.
Non conta niente la verità, sapete. Conta quello che serve al cuore per volare. Che è poi l’unico motivo per cui oggi piangiamo la fine del nostro tempo, dell’epoca dolcissima dei nostri sogni. Perché ieri, con quel re brasiliano, ha chiuso definitivamente gli occhi una parte del nostro cuore che aveva le ali.