Giovanni Orsina La Stampa 2 gennaio 2023
La stagione post-populista, una sfida anche per la destra
La sinistra ha più difficoltà nel mondo nuovo, la controparte non può limitarsi a dire Dio-patria-famiglia. Libero mercato, globalizzazione e secolarizzazione hanno eroso tutti i presunti valori da «conservare»
Lunedì 12 dicembre ho pubblicato su questo giornale un articolo intitolato «La nuova politica post-populista». Vi ho proposto due tesi. La prima, che il populismo abbia rappresentato «una rivolta del piccolo contro il grande, del concreto contro l’astratto, del vicino contro il lontano, del presente contro il futuro, del mondo vissuto contro il mondo pensato». O, per dirla con Stefano d’Arrigo, del «vistocogliocchi» contro il «sentitodire». La seconda, che l’ondata populista non si sia in realtà esaurita ma abbia allagato il Palazzo, e che la politica post-populista sia quindi tenuta a farci i conti. In un ulteriore articolo pubblicato martedì 27 dicembre, a partire da queste due premesse, ho sviluppato un embrione di ragionamento su quali siano le sfide che attendono la sinistra post-populista. Qui di seguito mi soffermo infine su quelle che dovrà affrontare la destra post-populista.
Nella stagione del post-populismo i conservatori partono in vantaggio. È dalla rivoluzione francese che si schierano con il concreto, il mondo vissuto e il vistocogliocchi, là dove negli ultimi due secoli quella progressista si è presentata come la cultura dell’astratto, del mondo pensato e del sentitodire. Non è certo un caso che l’insurrezione populista si sia espressa in prevalenza, per quanto non esclusivamente, attraverso forze politiche collocate a destra. Che la parte conservatrice sia più «contemporanea» della progressista non vuol dire però che non sia tenuta anch’essa a ripensarsi in profondità. Dovrà pure esserci un motivo, del resto, se la rivolta del vistocogliocchi si è espressa attraverso il voto a forze politiche nuove o rinnovate piuttosto che ai tradizionali partiti moderati, i quali pure ne avrebbero rappresentato il destinatario naturale.
Nel XXI secolo non c’è rimasto più molto da conservare: un bel problema per la destra contemporanea. La modernità negli ultimi duecento anni, e in maniera ancora più accelerata e radicale la tarda modernità negli ultimi cinquanta, hanno corroso irrimediabilmente i valori ai quali di norma si appoggiava il conservatorismo. Basti pensare alla più scontata delle triadi conservatrici – Dio, patria e famiglia – e misurare che cosa ne resti a valle dei processi di secolarizzazione, decostruzione delle identità collettive, globalizzazione, liquefazione dei legami sociali e santificazione dell’autonomia individuale: chiese sempre più vuote, sovranità sempre più precarie, vite sentimentali sempre più sincopate.
Le forze politiche della destra moderata si sono rese conto per tempo di questa deriva e già nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso hanno cominciato a modificare il proprio profilo ideologico, attenuando il richiamo ai valori tradizionali e puntando in maniera decisa sul mercato – direttamente nel caso delle destre anglosassoni, per il tramite dell’integrazione europea nel caso di quelle continentali. Una volta constatata l’impossibilità di arrestare la marcia della modernità, figurarsi invertirne il corso, col pragmatismo che sempre li contraddistingue i conservatori le sono insomma saltati in groppa, convinti di poterla governare dall’interno attribuendo alle leggi ferree dell’economia capitalistica, e alla crescita del benessere materiale che il mercato avrebbe prodotto, il compito «conservatore» di legittimare l’ordine e le gerarchie sociali e disciplinare gli individui. L’operazione ha funzionato, ma ha avuto un costo: il mercato – altro che conservatore! Strumento rivoluzionario se mai ce n’è stato uno – ha finito di distruggere quel poco ch’era rimasto delle tradizionali strutture sociali e culturali.
Nel momento in cui si sono infine ribellati alle astrazioni della tarda modernità e alle durezze di un capitalismo che pareva non mantenere più la promessa di benessere universale, così, gli elettori non si sono più potuti rivolgere ai partiti della destra moderata, che quelle astrazioni e quel capitalismo avevano finito per accettarli, anzi assecondarli. E hanno allora cominciato a votare per le forze politiche cosiddette populiste. Quelle, per parte loro, sono state assai efficaci nel rappresentare la rivolta, ma non l’hanno poi saputa incanalare in alcuna direzione politicamente costruttiva. Ha preso così forma la situazione nella quale ci troviamo oggi: il conservatorismo pre-populista ha fallito, e dal suo fallimento è scaturita l’insurrezione populista; quell’insurrezione è entrata nel Palazzo ma non sa che cosa farsene; e la destra si trova adesso a dover mettere insieme, sulle macerie di quei due insuccessi, un nuovo conservatorismo post-populista.
È forte la tentazione di tornare a questo punto al conservatorismo classico – Dio, patria e famiglia, per intenderci –, e di questa tentazione in Italia si avvertono oggi segnali robusti. È la via più facile, quella che meno ha bisogno di pensiero. Ma è anche la più sbagliata. E di gran lunga. Per la stragrande maggioranza dei nostri concittadini, Dio, patria e famiglia, dopo essere stati triturati per decenni, in teoria e in pratica, dalla tarda modernità, appartengono ormai al sentitodire, non più al vistocogliocchi. Sono princìpi astratti, residui di un Novecento – per non dire Ottocento – che si va facendo sempre più remoto. Il conservatorismo dei nostri giorni, a valle dell’insurrezione populista contro il mondo pensato, deve invece ripartire dal mondo vissuto. Ed è proprio quell’insurrezione a indicargli dove cercarlo, questo mondo vissuto.
Il cosiddetto populismo, come scrivevo il 12 dicembre, ha rappresentato un moto di rivolta contro l’antropologia del cittadino globale: quello che David Goodhart ha chiamato «anywhere», l’individuo «ovunque», privo di radici e identità precostituite, che sa trarre il massimo vantaggio dalla libertà e si sente a proprio agio in qualsiasi angolo del Pianeta. Il successo elettorale delle forze populiste ha dimostrato quanto poco realistica fosse quell’antropologia – quanto disumana, in definitiva, incapace di soddisfare tutte le esigenze, multiple e contraddittorie, dell’animo umano. Il conservatorismo ha adesso l’opportunità di fare forza sulla realtà che quella rivolta ha svelato. Post-populista, allora, lo dev’essere non tanto perché viene dopo l’insurrezione populista, ma soprattutto perché costruisce su di essa, perché la usa come dimostrazione storica dell’insufficienza dell’antropologia del cittadino globale e, di conseguenza, della possibilità di un’antropologia alternativa che sappia limitare e controbilanciare il potenziale distruttivo dei processi d’integrazione planetaria.
La destra contemporanea deve lavorare su quell’antropologia alternativa con l’obiettivo di riconnettersi al mondo vissuto degli italiani qualunque. E per farlo deve partire dal basso, non dai valori divenuti ormai astratti della tradizione: deve chiedersi di che cosa abbia bisogno in concreto un essere umano del ventunesimo secolo, qui e ora. Deve chiedersi che cosa sia una buona vita, una vita a tutto tondo, e come la politica possa aiutare le persone a costruirsela. Da lì, poi, potrà semmai risalire a Dio, patria e famiglia: nel momento in cui avrà restituito quei princìpi al vistocogliocchi perché avrà saputo dimostrare nei fatti che, senza di essi, una vita buona non è possibile.
gorsina@luiss.it
La stagione post-populista, una sfida anche per la destra
Giovanni Orsina La Stampa 2 gennaio 2023
La stagione post-populista, una sfida anche per la destra
La sinistra ha più difficoltà nel mondo nuovo, la controparte non può limitarsi a dire Dio-patria-famiglia. Libero mercato, globalizzazione e secolarizzazione hanno eroso tutti i presunti valori da «conservare»
Lunedì 12 dicembre ho pubblicato su questo giornale un articolo intitolato «La nuova politica post-populista». Vi ho proposto due tesi. La prima, che il populismo abbia rappresentato «una rivolta del piccolo contro il grande, del concreto contro l’astratto, del vicino contro il lontano, del presente contro il futuro, del mondo vissuto contro il mondo pensato». O, per dirla con Stefano d’Arrigo, del «vistocogliocchi» contro il «sentitodire». La seconda, che l’ondata populista non si sia in realtà esaurita ma abbia allagato il Palazzo, e che la politica post-populista sia quindi tenuta a farci i conti. In un ulteriore articolo pubblicato martedì 27 dicembre, a partire da queste due premesse, ho sviluppato un embrione di ragionamento su quali siano le sfide che attendono la sinistra post-populista. Qui di seguito mi soffermo infine su quelle che dovrà affrontare la destra post-populista.
Nella stagione del post-populismo i conservatori partono in vantaggio. È dalla rivoluzione francese che si schierano con il concreto, il mondo vissuto e il vistocogliocchi, là dove negli ultimi due secoli quella progressista si è presentata come la cultura dell’astratto, del mondo pensato e del sentitodire. Non è certo un caso che l’insurrezione populista si sia espressa in prevalenza, per quanto non esclusivamente, attraverso forze politiche collocate a destra. Che la parte conservatrice sia più «contemporanea» della progressista non vuol dire però che non sia tenuta anch’essa a ripensarsi in profondità. Dovrà pure esserci un motivo, del resto, se la rivolta del vistocogliocchi si è espressa attraverso il voto a forze politiche nuove o rinnovate piuttosto che ai tradizionali partiti moderati, i quali pure ne avrebbero rappresentato il destinatario naturale.
Nel XXI secolo non c’è rimasto più molto da conservare: un bel problema per la destra contemporanea. La modernità negli ultimi duecento anni, e in maniera ancora più accelerata e radicale la tarda modernità negli ultimi cinquanta, hanno corroso irrimediabilmente i valori ai quali di norma si appoggiava il conservatorismo. Basti pensare alla più scontata delle triadi conservatrici – Dio, patria e famiglia – e misurare che cosa ne resti a valle dei processi di secolarizzazione, decostruzione delle identità collettive, globalizzazione, liquefazione dei legami sociali e santificazione dell’autonomia individuale: chiese sempre più vuote, sovranità sempre più precarie, vite sentimentali sempre più sincopate.
Le forze politiche della destra moderata si sono rese conto per tempo di questa deriva e già nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso hanno cominciato a modificare il proprio profilo ideologico, attenuando il richiamo ai valori tradizionali e puntando in maniera decisa sul mercato – direttamente nel caso delle destre anglosassoni, per il tramite dell’integrazione europea nel caso di quelle continentali. Una volta constatata l’impossibilità di arrestare la marcia della modernità, figurarsi invertirne il corso, col pragmatismo che sempre li contraddistingue i conservatori le sono insomma saltati in groppa, convinti di poterla governare dall’interno attribuendo alle leggi ferree dell’economia capitalistica, e alla crescita del benessere materiale che il mercato avrebbe prodotto, il compito «conservatore» di legittimare l’ordine e le gerarchie sociali e disciplinare gli individui. L’operazione ha funzionato, ma ha avuto un costo: il mercato – altro che conservatore! Strumento rivoluzionario se mai ce n’è stato uno – ha finito di distruggere quel poco ch’era rimasto delle tradizionali strutture sociali e culturali.
Nel momento in cui si sono infine ribellati alle astrazioni della tarda modernità e alle durezze di un capitalismo che pareva non mantenere più la promessa di benessere universale, così, gli elettori non si sono più potuti rivolgere ai partiti della destra moderata, che quelle astrazioni e quel capitalismo avevano finito per accettarli, anzi assecondarli. E hanno allora cominciato a votare per le forze politiche cosiddette populiste. Quelle, per parte loro, sono state assai efficaci nel rappresentare la rivolta, ma non l’hanno poi saputa incanalare in alcuna direzione politicamente costruttiva. Ha preso così forma la situazione nella quale ci troviamo oggi: il conservatorismo pre-populista ha fallito, e dal suo fallimento è scaturita l’insurrezione populista; quell’insurrezione è entrata nel Palazzo ma non sa che cosa farsene; e la destra si trova adesso a dover mettere insieme, sulle macerie di quei due insuccessi, un nuovo conservatorismo post-populista.
È forte la tentazione di tornare a questo punto al conservatorismo classico – Dio, patria e famiglia, per intenderci –, e di questa tentazione in Italia si avvertono oggi segnali robusti. È la via più facile, quella che meno ha bisogno di pensiero. Ma è anche la più sbagliata. E di gran lunga. Per la stragrande maggioranza dei nostri concittadini, Dio, patria e famiglia, dopo essere stati triturati per decenni, in teoria e in pratica, dalla tarda modernità, appartengono ormai al sentitodire, non più al vistocogliocchi. Sono princìpi astratti, residui di un Novecento – per non dire Ottocento – che si va facendo sempre più remoto. Il conservatorismo dei nostri giorni, a valle dell’insurrezione populista contro il mondo pensato, deve invece ripartire dal mondo vissuto. Ed è proprio quell’insurrezione a indicargli dove cercarlo, questo mondo vissuto.
Il cosiddetto populismo, come scrivevo il 12 dicembre, ha rappresentato un moto di rivolta contro l’antropologia del cittadino globale: quello che David Goodhart ha chiamato «anywhere», l’individuo «ovunque», privo di radici e identità precostituite, che sa trarre il massimo vantaggio dalla libertà e si sente a proprio agio in qualsiasi angolo del Pianeta. Il successo elettorale delle forze populiste ha dimostrato quanto poco realistica fosse quell’antropologia – quanto disumana, in definitiva, incapace di soddisfare tutte le esigenze, multiple e contraddittorie, dell’animo umano. Il conservatorismo ha adesso l’opportunità di fare forza sulla realtà che quella rivolta ha svelato. Post-populista, allora, lo dev’essere non tanto perché viene dopo l’insurrezione populista, ma soprattutto perché costruisce su di essa, perché la usa come dimostrazione storica dell’insufficienza dell’antropologia del cittadino globale e, di conseguenza, della possibilità di un’antropologia alternativa che sappia limitare e controbilanciare il potenziale distruttivo dei processi d’integrazione planetaria.
La destra contemporanea deve lavorare su quell’antropologia alternativa con l’obiettivo di riconnettersi al mondo vissuto degli italiani qualunque. E per farlo deve partire dal basso, non dai valori divenuti ormai astratti della tradizione: deve chiedersi di che cosa abbia bisogno in concreto un essere umano del ventunesimo secolo, qui e ora. Deve chiedersi che cosa sia una buona vita, una vita a tutto tondo, e come la politica possa aiutare le persone a costruirsela. Da lì, poi, potrà semmai risalire a Dio, patria e famiglia: nel momento in cui avrà restituito quei princìpi al vistocogliocchi perché avrà saputo dimostrare nei fatti che, senza di essi, una vita buona non è possibile.
gorsina@luiss.it