Ratzinger e le dimissioni: gli intrighi, le pressioni. E il Pci di Gramsci…

Andrea Riccardi Corriere della Sera 2 gennaio 2023
Ratzinger e le dimissioni: gli intrighi, le pressioni. E a Napolitano anticipò: «Non ne posso più»
Andrea Riccardi spiega cosa portò Benedetto XVI alle dimissioni: «Capì di non riuscire più a governare e non voleva farsi strumentalizzare. A Napolitano anticipò la sua decisione»

 

Stavo concludendo la biografia di Giovanni Paolo II ed ebbi una conversazione in proposito con Benedetto XVI, il principale collaboratore di Wojtyla.

Questi lo stimava molto: «È l’ultimo teologo del Vaticano II», disse di lui.

Ratzinger, riconosciuto intellettuale europeo (faceva parte dell’Académie Française), integrava con la sua dottrina le intuizioni mistiche e carismatiche di Wojtyla.

Il cardinale lo ammirava: «Sollevava i continenti», scrisse di lui. Anche se non condivideva tutto, come la preghiera interreligiosa di Assisi, ma anche gli ultimi tempi di pontificato, segnati da una malattia vissuta di fronte al mondo.

Il mio colloquio con Ratzinger mi rivelò, ancora una volta, il suo atteggiamento cordiale e paritario. Faceva domande e mostrava grande capacità di ascolto, come chi sente di poter sempre imparare e di conoscere poco la vita. Eppure era aggiornato. Lo vidi quando, a un pranzo di Sant’Egidio con i poveri, incontrò gente di vari Paesi e ricordava a ciascuno la situazione della propria patria.

Nel colloquio con lui, mi colpì, oltre i discorsi, la sua gestione dei rapporti. Mi fece aspettare in anticamera più di mezz’ora. Non era un problema per me. Però, quando entrai da lui, era turbato: si scusava eccessivamente dell’attesa, accennando al cardinale in udienza prima di me, come di uno un po’ invadente, che non rispetta gli orari.

Mi colpì: una persona, come il Papa, ha molti modi di congedare. Ma non era facile, per lui, timido e mite, gestire i rapporti, specie con i prepotenti o gli insensibili.

Quando, nel 1981, venne in Curia come prefetto della dottrina della fede, condivideva un progetto con Wojtyla: «Uscire dalla crisi della Chiesa, massima fedeltà al Vaticano II, proseguire la recezione del Concilio». Mi disse: «No a una riforma strutturale, ma una riforma spirituale».

Ratzinger mi parlò del governo di Wojtyla, che talvolta agiva fuori dai canali istituzionali, e della Segreteria di Stato: «C’è una dialettica di sempre tra la persona e l’istituzione, anche con la Segreteria di Stato, che pur stimava. Wojtyla veniva da fuori. Per Paolo VI e Pio XII era diverso: venivano dalla Segreteria».

Anche Benedetto veniva dalla Curia. Ma non si sentiva un curiale e conduceva una vita riservata.

Non ha mai avuto un governo extraistituzionale come Wojtyla o, in altro modo, Francesco: si è servito della Curia, ma ne ha sentito il peso.

Un papa malato come Wojtyla non si doveva dimettere? «In una visione retrospettiva — disse Benedetto — vediamo che è stata una catechesi del dolore. Era un tipo di governo. Si governa con la sofferenza. Ma non sempre è possibile; si può solo dopo un pontificato così lungo. Dopo tanta vita attiva era giusta una pausa di sofferenza. Anche in un mondo dove si nasconde la sofferenza che, invece, è parte dell’essere umano».

Benedetto non amava mostrare la malattia. Wojtyla, quando si parlava di dimissioni, rispose: «Gesù non è sceso dalla croce». La scelta di Ratzinger è in tutt’altro senso .

Non la spiegano i motivi di salute. Ha pesato molto — a mio avviso — la coscienza di non essere più in grado di guidare la Chiesa, anche perché sottoposto a varie pressioni.

Non voleva assolutamente che persone o ambienti gli prendessero la mano in un governo che considerava sua responsabilità personale.

Così rimise il ministero ai cardinali e credeva che lo Spirito avrebbe indicato il nuovo papa.

Il 4 febbraio 2013, al concerto in Vaticano, prevenne il presidente Napolitano delle sue imminenti dimissioni. Di fronte a un presidente perplesso e a qualche sua obiezione, sembra abbia concluso: «Non ne posso più».

Nel colloquio con Ratzinger, parlammo pure dell’origine di Wojtyla e del suo messianismo polacco: «Era un patriottismo vero, che da un popolo sofferente sviluppa la speranza». Wojtyla — aggiunse — «parlava di un nuovo Avvento e di un tempo di gioia del cristianesimo». «L’ho visto sofferente, ma non triste», concluse.

Benedetto XVI aveva in comune con Wojtyla la convinzione che, se il cristianesimo avesse perduto l’Europa, sarebbe stato un dramma per l’intera Chiesa nel mondo. Non è stato, come Francesco, un Papa che viene da lontano. Tedesco, anzi bavarese, amante di Roma e dell’Italia, di cultura francese, si muoveva a suo agio nei dibattiti politici e intellettuali del continente.

Gli raccontai di un colloquio di molti anni prima con Wojtyla. Gli avevo espresso l’idea che il Pci fosse diverso dai partiti «fratelli». Wojtyla mi aveva guardato perplesso e critico. Benedetto sorrise e sorprendentemente disse: «No, aveva ragione lei. Il Pci ha nella sua storia una figura come Gramsci che lo ha reso diverso». E si mise a parlare dettagliatamente di Gramsci.

Era un uomo forte, seppure timido, quasi accondiscendente. Mi disse il segretario, don Georg: «Niente di più fermo della decisione dei miti». Non aveva l’audacia di Wojtyla, che convocò le religioni ad Assisi nel 1986: per Ratzinger ci furono «malintesi», ma c’erano anche «intenzioni pure». Credeva però che «le religioni debbono essere strumenti di pace». Infatti, per i venticinque anni della preghiera wojtyliana, tornò ad Assisi per celebrarne l’anniversario. Tale era il suo senso di continuità e di fedeltà alla storia della Chiesa.

Ratzinger è stato uomo di fede e un grande intellettuale, un europeo complesso, contraddittorio e sfaccettato, nonostante la sua linearità. Per questo, come si vede dopo la sua morte, nonostante i dieci anni trascorsi nel silenzio, la sua figura interroga e interessa ancora.

 

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