“Senza Ratzinger e le denunce contro la mondanità e la sporcizia nella Chiesa non sarebbe stato eletto Francesco”

Gianluigi Nuzzi La Stampa 2 gennaio 2023
“Senza Ratzinger e le denunce contro la mondanità e la sporcizia nella Chiesa non sarebbe stato eletto Francesco”
Fu sempre il Papa tedesco ad affrontare il tema del denaro, del rapporto tra preti e soldi, ad aprire già nel 2008 le porte ai laici, ai colossi mondiali della revisione per verificare le spese, ad affidare a loro e a Viganò di sciogliere i segreti di pulcinella come quello degli appalti gonfiati fino al 4-500% in più rispetto all’Italia

 

L’altalena saliva alta in cielo tra le risate dei bimbi, chi affondava il volto nello zucchero filato, chi strillava dal passeggino esasperando giovani mamme e nonni forzuti. Sullo sfondo come ombre qualche perdigiorno dinoccolato a fumarsi una canna. Nel parchetto dietro piazza Mazzini a Roma scivolava lento un imprecisato pomeriggio dell’autunno del 2011 quando quel giovane, magro, alto un metro e ottanta, il volto asciutto e gli occhi scuri ma radiosi mi si avvicinò nel suo vestire tutto nero, abito cravatta scarpe, ad eccezione della camicia bianca.

Pareva uno delle Iene e invece era Paolo Gabriele, il maggiordomo di Benedetto XVI. Con uno sguardo veloce mi indicò un albero vicino ai giochi per i bimbi e sparì. Le consegne delle fotocopie dei dossier più delicati che Ratzinger aveva sulla scrivania ebbe un’accelerazione, senza che nessuno per mesi e mesi fermasse la fuoriuscita di carte dalla stanza che al contrario dovrebbe essere più sorvegliata nel palazzo Apostolico più protetto dello Stato più controllato al mondo.

Un Paese dove – per capirci – si narra che le telecamere riescano persino a inquadrare il labiale di chi cammina per le poche strade dietro la cupola. Quel pomeriggio Paoletto – come lo chiamava Wojtyla, coniando un soprannome che poi conquistò tutti – mi consegnò le lettere che monsignor Carlo Maria Viganò, segretario generale del governatorato, aveva scritto nella precedente primavera al Santo Padre e all’allora numero due della curia romana, il cardinale Tarcisio Bertone. Missive dirompenti. Per la prima volta nella storia moderna della chiesa, un prelato si rivolgeva direttamente al pontefice utilizzando una parola finora tabù nei sacri palazzi: «Santità, c’è corruzione in Vaticano». E poi nomi, cognomi, cifre, episodi fino alla segnalazione di aderenti alla lobby gay oltre le mura.

Per capire vatileaks e la clamorosa rinuncia di Benedetto XVI bisognerebbe scandagliare gli ultimi anni di pontificato, partendo da un punto irrinunciabile e fermo: senza Ratzinger e le denunce contro la mondanità, la sporcizia nella Chiesa non sarebbe stato eletto Francesco. «Non è la Chiesa ad essere in crisi ma la fede». E se manca credibilità e trasparenza come si può immaginare di interrompere il declino?

Era stato sempre il papa tedesco ad affrontare il tema del denaro, del rapporto tra preti e soldi, ad aprire già nel 2008 le porte ai laici, ai colossi mondali della revisione per verificare le spese, ad affidare a loro e a Viganò di sciogliere i segreti di pulcinella come quello degli appalti gonfiati fino al 4-500% in più rispetto all’Italia. Perché una semplice penna se in Italia costa 50 centesimi in vaticano costa due, tre volte tanto? Già, chi lo sa? Certo, in quegli anni la curia era saldamente in mano a un blocco di porporati italiani che respinse i tentativi di cambiamento, la circolare che proprio Ratzinger aveva firmato alla dottrina della Fede ribadendo l’incompatibilità per un sacerdote di obbedire alla massoneria non doveva aver sortito particolare effetto.

Ed è eloquente la telefonata che nell’agosto del 2009 il banchiere Ettore Gotti Tedeschi ricevette da un alto esponente dopo che sempre Benedetto XVI lo aveva indicato al vertice dello Ior: «Caro Ettore, complimenti ma non chiedere mai chi sono i correntisti dello Ior», «E se dovessi farlo?”chiese lui per sentirsi replicare con gelo: «Beh da quel momento avrai 15 minuti per mettere in sicurezza i tuoi figli».

Il clima era questo con Bertone che si congeda dal papa livido in volto quando il pontefice per due volte scandisce lettera per lettera l’aggettivo esemplare per far capire che bisogna introdurre il reato di riciclaggio, avviare le riforme per la trasparenza, insomma dare una svolta. Ma i curiali fanno muro, riescono a bloccare Viganò che sta per essere spedito nunzio apostolico negli Usa, isolano e delegittimano Gotti Tedeschi con uno psichiatra che lo segue a distanza per carpirne le fragilità e redige relazioni dubitando dell’equilibrio dell’uomo scelto per far entrare il vaticano nella lista dei paesi con norme bancarie moderne.

E anche l’azione del maggiordomo altro non è che una miccia per far detonare lo scandalo, far conoscere a tutti (parte di) quanto sta accadendo e puntare al cambiamento. E così la pressione aumenta. Nel gennaio del 2012 porto in tv gli scandali e le carte del vaticano, Bertone convoca Franco Bernabé, all’epoca numero uno de La7 per esprimergli diciamo la contrarietà alla divulgazione di quanto mandato in onda. Bernabé mi chiama per conoscermi a Roma: «Cosa volete fare?», «raccontare quello che scopriamo». Non ci ostacola. I soliti ignoti fanno visita a Chiarelettere, la casa editrice che pubblicava i miei saggi: strani ladri rubano carte ma lasciano denaro. Poi a maggio esce «Sua Santità» il mio saggio denuncia con atti, nomi: le spine che affliggevano Ratzinger. L’allora sostituto Angelo Becciu con Bertone ordina l’arresto di Gabriele, accusato di passarmi fotocopie.

Reato di diffusione di verità, si potrebbe dire. Un incensurato, padre di famiglia, ombra del papa, viene portato in un anfratto dove nemmeno – mi racconterà – poteva allargare le braccia. Esplode lo scandalo vatileaks che permette al fine pontefice di istituire una commissione d’inchiesta, formata da tre cardinali ultraottantenni, su questo stato parallelo che si è lì sviluppato già dai tempi dei Marcinkus e dei Sindona, capace di svilire ogni intento del monarca. Il 17 dicembre del 2012 i tre consegnano a Benedetto XVI due tomi con la mappa del marcio in quel piccolo, potente, mondo. L’eredità per illuminare i primi decisivi mesi del successore è pronta. Di lì a qualche settimana arriva la rinuncia – ben ponderata e preparata nei minimi dettagli – che sconvolge tutti ma non chi era convinto che fosse l’unica strada percorribile. Il papa emerito e quello appena eletto si incontrano a castel Gandolfo, si siedono uno di fronte all’altro. Al centro un tavolino dove domina una cesta di vimini bianca. Contiene i due dossier. Non c’è più tempo: «Non è la Chiesa ad essere in crisi ma la fede».

 

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