Ilario Lombardo La Stampa 4 gennaio 2023
“Partito unico? Non esiste”. Meloni gela gli alleati in crisi
Berlusconi rilancia il progetto Repubblicano. La premier: “Ci siamo noi”. Ma non si esclude l’ipotesi di restyling di FdI per le prossime Europee
Per Giorgia Meloni è come se Silvio Berlusconi, né più né meno, le volesse vendere la Fontana di Trevi. Qualcosa che non esiste nelle forme immaginate dal fondatore di Forza Italia. «In Italia c’è già un grande partito conservatore – è il ragionamento attribuito alla premier dai ministri a lei più vicini –, è un partito che tutti i sondaggi danno stabilmente sopra il 30 per cento e che alle Europee può ambire ad arrivare al 35-36%. Si chiama Fratelli d’Italia».
Dunque, il Partito Repubblicano di cui parla Berlusconi, rilanciando un’idea che di tanto in tanto rispolvera, e dove dovrebbero confluire azzurri, Lega e FdI, è un progetto che è già svanito. Ma che va analizzato come sintomo di un malessere crescente nella coalizione di centrodestra, perché segnala turbolenze all’orizzonte, frustrazioni, voglia di rivalsa e possibili mutazioni.
Chi conosce bene Berlusconi ricorda un episodio di poco meno di un mese fa, ad Arcore, durante il pranzo pre-natalizio che ha riunito nello stesso salone la dirigenza di FI, ministri e capigruppo. Il leader sonda i presenti sull’ipotesi di un partito unico, e a un certo punto si alza Gianni Letta. Il fidatissimo consigliere dice più o meno questo: che un’operazione del genere non avrebbe alcun senso, perché a guidarlo non sarebbe lui, Silvio, ma il leader più forte ora, cioè Meloni. In realtà, spiega chi era presente, nella testa di Berlusconi c’è anche altro, una federazione con la Lega, magari già in vista delle Europee del 2024, per tentare di ribaltare i rapporti di forza troppo favorevoli alla presidente del Consiglio e cercare di traghettare il Carroccio nel Partito popolare europeo.
Sta di fatto che Berlusconi ci è tornato su, strappando poco più che una smorfia a Meloni. La premier lascia però che siano i suoi fedelissimi a rispondere e a chiarire bene il messaggio. Lo fanno il responsabile del partito Giovanni Donzelli su Libero, e il cognato ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida: L’evoluzione italiana dei conservatori è la forza politica della leader che già li guida in Europa.
La sensazione di tutti, dentro FdI, è che l’erosione dei consensi stia spaventando Berlusconi, mai arrivato a percentuali così basse. Il patriarca di Arcore, a quasi 87 anni, ha bisogno di indicare un orizzonte agli eletti, terrorizzati dal diluvio che li attende quando si aprirà il “dopo-di-lui”. L’ex premier vuole giocare di anticipo, anche perché sente il disagio che lo circonda, la cooptazione in atto, il passaggio spontaneo sul carro del vincitore.
Il no di Meloni alla formula di Berlusconi era quasi scontato. Per puro calcolo di interesse. Ma la leader è anche convinta che non abbia alcun senso politico, né che possa servire a dare maggiore stabilità al governo, come le suggerisce qualcuno. Al momento Meloni pensa sia meglio tenere le cose come stanno, un’alleanza a tre teste, con due partiti indeboliti, «ma – come dice anche in queste ore – senza molte alternative».
Ecco, il tema dell’alternativa, per Meloni, è la chiave per una sopravvivenza più o meno tranquilla. «Ho già detto – giura a ogni occasione utile – che, per quanto mi riguarda, in questa legislatura non c’è una maggioranza alternativa a quella attuale. Se cade il governo, si deve tornare al voto». Il ricatto è implicito al messaggio rivolto soprattutto a chi, tra i berlusconiani, pensa a qualche alchimia di destabilizzazione, magari unendo le forze a Matteo Renzi e al Terzo Polo. L’epilogo, secondo gli uomini di FdI, sarebbe l’estinzione alle urne di FI.
Ma poiché in politica è sempre meglio avere pronto anche un piano B, tra i meloninani c’è chi, soprattutto nel fronte più liberale, non esclude che alla fine un partito conservatore – chiamato proprio così o con un nome nuovo – potrebbe nascere. Se alla vigilia della campagna per le Europee FdI dovesse restare molto in alto nei consensi, una ri-brandizzazione potrebbe anche tornare utile. Molto dipenderà anche dal voto delle Regionali nel Lazio e in Lombardia.
Il partito – questa è l’idea – diventerebbe un polo di attrazione naturale. E confermerebbe l’evoluzione che, con un occhio a Bruxelles, è in corso. D’altronde, Meloni ha voluto in posti strategici uomini come i ministri Guido Crosetto, Raffaele Fitto, e il sottosegretario alla presidenza Alfredo Mantovano, che non sono cresciuti, come altri, con lei ai banchetti della gioventù post-fascista. Gente che ha militato dentro FI, e che ora spera in un matrimonio tra Conservatori e Popolari in Europa, e di conseguenza nella fine dell’alleanza storica tra Ppe e socialisti. Fitto ci lavora da anni, di sponda con il vicepremier Antonio Tajani e il popolare tedesco Manfred Weber.
I semi sono stati gettati. Ora, con il Pse ulteriormente indebolito dalle corruzioni del Qatargate, vanno raccolti i frutti. Meloni vuole essere definitivamente sdoganata nel salotto buono europeo. È su quello che sta lavorando, e su un’operazione che è l’opposto della suggestione di Berlusconi: «Non dobbiamo importare il modello europeo in Italia, e confluire tutti nei Popolari, ma esportare in Europa il modello italiano del centrodestra, con forze diverse e alleate». La fine di FI è solo la prima delle due variabili. L’altra è la Lega, la sua lotta interna, la rabbia della vecchia guardia del Nord, la leadership al tramonto di Matteo Salvini. Le elezioni nel Lazio e in Lombardia sono il grande test per capire cosa resterà da qui a qualche mese di quel modello di cui parla Meloni. —