I timori delle cancellerie sulla tenuta del potere di Putin

Gianluca Di Feo La Repubblica 6 gennaio 2023
Lo scenario: i timori delle cancellerie sulla tenuta del potere di Putin
Diplomazie al lavoro per scongiurare nuovi massacri. Ma manca ancora un piano condiviso

 

Quando nel Natale 1914 i soldati uscirono dalle trincee per festeggiare insieme, la Grande Guerra era solo agli inizi. L’anno dopo gli episodi di fraternizzazione sono stati sporadici; nel 1916 sono scomparsi: un muro d’odio aveva diviso gli eserciti, stroncando qualsiasi spinta al dialogo. In Ucraina tutto è stato più veloce, bruciando le tappe e le città: la ferita aperta tra i due popoli con l’invasione del 24 febbraio è già troppo profonda. Le cronache del fronte mostrano un crescendo di crudeltà che non risparmia nulla e nessuno: si allarga ogni giorno, sotto i colpi dei cannoni e i raid dei missili. La tregua di Putin è stata respinta da Kiev con ostile diffidenza, ricordando come l’ultimo cessate il fuoco della storia recente – quello del capodanno lunare vietnamita – permise nel 1968 ai vietcong di organizzare la micidiale offensiva del Tet. Si spara senza sosta, da Karkhiv al Mar Nero: ieri c’è stata una sequela di incursioni e bombardamenti, con piccoli attacchi e contrattacchi che non sono riusciti a modificare il fronte ma hanno lasciato sul campo decine di morti e feriti. Il gioco al massacro è un vortice impetuoso.

Nelle cancellerie del pianeta infatti c’è la sensazione che sia scattato un conto alla rovescia. Entro due mesi, la battaglia riprenderà con veemenza. I generali rivali studiano le condizioni del terreno, aspettando che il ghiaccio sostituisca il fango e permetta ai tank di correre nelle pianure. Entrambi addestrano altre truppe: gli ucraini mandano migliaia di uomini a formarsi nelle basi occidentali; i russi cercano di istruire le reclute e ricostruire le brigate logorate dalle disfatte. Accumulano munizioni e mezzi, che Kiev riceve con più fatica dagli alleati e Mosca tira fuori dai magazzini sovietici. Tentano di perfezionare tattiche e dispositivi tecnologici per sorprendere l’avversario.
Nei comandi americani ed europei questi preparativi vengono analizzati anche ricorrendo a wargame che prendono in considerazioni le possibili manovre. Si discute l’ipotesi di un’offensiva di Putin “a tridente”, usando la Bielorussia come trampolino di lancio ma concentrando lo sforzo in direzione di Karkhiv o della stessa capitale. Si valuta l’eventualità che sia Zelensky a ordinare la prima mossa, puntando su Zaporizhzhia o su Melitopol. Ogni simulazione finisce col portare a due risultati ritenuti netti, che i vertici militari della Nato hanno sottoposto ai leader politici. Il primo è che nessun esercito otterrà la vittoria definitiva: il prossimo scontro sarà una carneficina, con decine di migliaia di vittime. Le fortificazioni allestite in profondità – i russi stanno costruendo ovunque triplici linee difensive – assieme alla quantità di tank e artiglierie coinvolte impediranno però di raggiungere un successo risolutivo.

La seconda conclusione è quella che apre gli interrogativi più cupi sul futuro: sarà Mosca a uscirne peggio, subendo la distruzione di quel che resta del suo potenziale bellico. Il Cremlino non avrà più pedine da muovere e il suo intero sistema di potere verrà messo in discussione: “Putin, ultimo atto”, ha titolato ieri Foreign Affairs, pubblicando il saggio di Liana Fix e Michael Kimmage che prospetta la caduta dello Zar e una fase di instabilità in due continenti. Uno scenario carico di minacce, dal rischio che si affermino falchi come il capo della Wagner Evgenij Prigozhin all’eventualità che i russi ricorrano alle atomiche per rispondere a un’altra sconfitta.

Questa previsione da brivido ha messo in moto il lavorio sotterraneo della diplomazia. Il summit tra Biden e Zelensky ha riaperto la partita dei colloqui, tentando di architettare un compromesso: non una pace, ma una tregua sostenibile per frenare la corsa verso il baratro. La recentissima nomina a ministro degli Esteri di Qin Gang, ex ambasciatore a Washington e Londra, è stata letta come una disponibilità di Pechino alla mediazione. Anche le relazioni personali tra Putin e Netanyahu possono aprire un canale di comunicazione alternativo a quello portato avanti dal turco Erdogan. Qualcosa insomma si sta muovendo. Ma la strada per un accordo deve essere ancora tracciata. E resta più lunga degli 800 chilometri di trincee dove 400mila uomini si sparano addosso tutti i giorni.

 

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