La crisi del Pd riguarda anche il resto della sinistra?

Franco Monaco il Manifesto 12 gennaio 2023
I molti indizi che contraddicono un percorso aperto
Anche chi è critico con il Pd non può essere indifferente alla sua sorte. Di sicuro chi si situa nel campo democratico e progressista, ma anche chi, più in generale, è sollecito per la qualità della nostra democrazia che, per definizione, necessita di una opposizione degna di questo nome.

 

Dunque, è motivo di sincera preoccupazione constatare la moltiplicazione dei segnali – come usa dire, molti indizi configurano una prova – di una diffusa resistenza al cambiamento nel processo congressuale. In palese contraddizione con il presupposto, a parole da tutti condiviso, della portata della crisi che lo ha investito e che aveva condotto a formule del tipo “nuovo Pd”, “costituente”, “Pd oltre se stesso”.

A rimarcare l’esigenza una radicale discontinuità. Sugli indizi di una resistenza al cambiamento, il primo riguarda la tempistica congressuale autolesionisticamente estesa. Originata da complesse procedure – ci si spiega – dettate da Statuto e regolamenti. Facile replicare: le regole sono per la politica e non viceversa, la politica non può attendere oltre misura, persino gli Stati conoscono lo “stato d’eccezione”. In concreto, i lunghi mesi che separano la sonora sconfitta dal congresso non stanno giovando al Pd. Lo attestano i sondaggi e, più ancora, il sentimento di militanti, iscritti, elettori.

Secondo: la discussione nel Comitato di 87 membri (sic) istituito per emendare la Carta dei valori stilata nel 2007 all’atto della sua nascita. Un’era geologica fa. Discussione trattenuta da una obiezione pregiudiziale sulla legittimazione ad approvare poi la Carta emendata da parte di organi in scadenza. Con un argomento formalmente non peregrino cui tuttavia opporre tre rilievi: l’esito pratico di inibire un confronto aperto su un documento decisamente datato; comunque un documento politico e non la “Costituzione” del partito (la Carta non è lo Statuto); una opposizione a innovare la Carta dei valori avanzata in nome del difetto di un “mandato costituente” nel mentre, come accennato, da taluni, si sia parlato esattamente di un “congresso costituente”. Senza cioè un previo chiarimento sul presupposto a monte.

Terzo: l’inibizione di un confronto a tutto campo e in profondità e le stesse norme statutarie hanno concorso a produrre il risultato sotto i nostri occhi. Ovvero candidati veri o presunti, competitivi o velleitari, che, comunque, non ci partecipano la loro visione del partito e della società esibendo piattaforme organiche ma, al più, affidandone qualche frammento a interviste alla stampa. Francamente un po’ poco.

Quarto: la disputa sul voto online. Non si comprende la resistenza ad esso. O forse la si comprende benissimo. E’ già stata sperimentata a Roma, Torino, Bologna e in Sicilia. Oggi è tecnicamente possibile garantirne la sicurezza. Del resto, anche i gazebo non sono in assoluto al riparo da abusi e inquinamenti. Inutile girarci intorno: chi vi si oppone teme l’apertura, scommette su una partecipazione limitata. E comunque la discussione sul punto manifestamente dettata da un calcolo non fa un bel vedere. Quinto: la retorica dei territori. Doppiamente discutibile. Sia perché chi si candida a guidare un grande partito nazionale deve offrire appunto una visione politica e programmatica nazionale. Sia perché si dà a credere che il patologico correntismo – effettivamente la sua malsana “costituzione materiale”, trattandosi per lo più di cordate personali – allignerebbe solo a Roma. Una narrazione smentita nei fatti.

Basti osservare la corsa dei capi, dei sottocapi e dei loro referenti territoriali, clan familiari compresi, specie al sud, a mettersi al seguito dei candidati considerati a torto o a ragione favoriti. I quali, a dispetto delle smentite, li reclutano volentieri. Non esattamente la discontinuità, l’innovazione e l’apertura necessarie e promesse.
Speriamo di essere smentiti.

 

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