Carmelo Lopapa La Repubblica 15 gennaio 2023
Il fragile castello di Giorgia
Dalle accise sulla benzina al conclave annunciato e poi cancellato con i fedelissimi, i conti lasciati in sospeso vengono a galla
È come se a ridosso dei fatidici cento giorni dall’insediamento, tutti i conti lasciati in sospeso da una premier appagata dalla luna di miele post elettorale venissero al saldo. La retromarcia perfino sulla convocazione per lunedì del discusso “conclave nero” — come era stato ormai battezzato dai suoi stessi alleati il summit di ministri e capigruppo e dirigenti della sola componente di Fratelli d’Italia — è solo l’ultima di una sequenza da record per Giorgia Meloni.
Migranti, ratifica del Mes, uso del Pos, modifiche al Pnrr, tetto al contante, strategia di sostegno all’Ucraina, lotta al Covid, decreto Rave. E ora il taglio sì-taglio no alle accise sulla benzina. Tutto all’insegna di un azzardo sovranista poi ritrattato (e per fortuna, in quasi tutti i casi) sotto la costrizione e la inoppugnabilità dei fatti, della realtà, spesso dei numeri per loro natura inesorabili.
Sono tessere che compongono il mosaico della sontuosa incertezza nel governare. Altro che “qui si fa l’Italia o si muore”, altro che “stiamo correndo una maratona”, come proclamava ieri la premier. Se il giudizio sfocerà nell’inadeguatezza sarà solo il tempo a dirlo, emetterlo adesso — a meno di tre mesi dal giuramento — apparirebbe sicuramente prematuro, azzardato e dunque strumentale. Quel che però fin d’ora si può dire è che la presidente del Consiglio, terminata a questo punto davvero la liaison col suo elettorato, sta prendendo atto dell’inconsistenza di una squadra di governo che è stata frutto di un compromesso al ribasso con i riottosi, quanto ingombranti, alleati. Una compagine che appare un misto di autarchia politica e di populismo patriottico e destroide. Mentre il loro stesso blocco sociale, dai benzinai ai padroncini dell’autotrasporto ai tassisti, è già sul piede di guerra.
Il fatto è che il gabinetto Meloni risulta privo di una classe dirigente di qualità. Un intero governo, non solo una premier, “under dog”. Solo che l’umiltà vantata legittimamente da Giorgia Meloni per le origini personali finisce con trasformarsi in handicap politico se si traduce per un intero governo in modestia nell’approccio ai problemi. L’arte del governare non si improvvisa. L’incertezza e l’assenza di qualità generano ansia da controllo. Quella che ha portato due giorni fa i vertici del partito, e dunque chiaramente la stessa leader, a imporre un vincolo alla libertà di espressione di tutti i loro parlamentari.
Giusto per non disturbare la manovratrice in evidente impasse. Sullo sfondo — forse il vero motore di tutto il teatrino dilettantesco — il rapporto irrisolto con gli alleati. Improntato a una sostanziale sfiducia reciproca. Silvio Berlusconi non considera affatto la presidente Meloni una degna erede a Palazzo Chigi, ne lamenta in privato a più riprese la scarsa esperienza, imputandole la propensione a fare tutto da sola, non coinvolgendo né lui (“Non mi chiama mai”) né i suoi ministri.
Matteo Salvini ha compreso solo di recente di essere stato relegato al dicastero taglia-nastri, pur col sottotitolo di vicepremier. Ma si accontenta. Lei, in compenso, si fida poco o nulla di entrambi e sta tentando di neutralizzarli fidelizzando progressivamente i numeri due, da Giorgetti a Tajani. Se ha dovuto annullare il “conclave” di domani coi suoi è proprio per la rivolta di forzisti e leghisti: non comprendevano perché avrebbero dovuto subire ed eseguire un cronoprogramma di governo stilato dai soli vertici di FdI.
Chissà quanto potrà durare questo giochino prima che salti tutto per aria. Chissà quanto reggerà un castello così fragile sotto la pressione del caro vita, delle cambiali elettorali da rispettare, dei vincoli europei. Chissà quando gli ipnotizzati da congresso di casa Pd si sveglieranno e decideranno di fare opposizione. Lo scopriremo presto.
Ps. Il presidente del Senato Ignazio La Russa, privato appunto del vertice con la premier di domani, ha ripiegato partecipando nientemeno che all’evento milanese di presentazione delle liste in sostegno del governatore ricandidato Fontana. Come progressiva affermazione del ruolo istituzionale in qualità di seconda carica dello Stato non c’è nulla da eccepire. Il caso si conferma semplicemente uno scandalo.
Il fragile castello di Giorgia
Carmelo Lopapa La Repubblica 15 gennaio 2023
Il fragile castello di Giorgia
Dalle accise sulla benzina al conclave annunciato e poi cancellato con i fedelissimi, i conti lasciati in sospeso vengono a galla
È come se a ridosso dei fatidici cento giorni dall’insediamento, tutti i conti lasciati in sospeso da una premier appagata dalla luna di miele post elettorale venissero al saldo. La retromarcia perfino sulla convocazione per lunedì del discusso “conclave nero” — come era stato ormai battezzato dai suoi stessi alleati il summit di ministri e capigruppo e dirigenti della sola componente di Fratelli d’Italia — è solo l’ultima di una sequenza da record per Giorgia Meloni.
Migranti, ratifica del Mes, uso del Pos, modifiche al Pnrr, tetto al contante, strategia di sostegno all’Ucraina, lotta al Covid, decreto Rave. E ora il taglio sì-taglio no alle accise sulla benzina. Tutto all’insegna di un azzardo sovranista poi ritrattato (e per fortuna, in quasi tutti i casi) sotto la costrizione e la inoppugnabilità dei fatti, della realtà, spesso dei numeri per loro natura inesorabili.
Sono tessere che compongono il mosaico della sontuosa incertezza nel governare. Altro che “qui si fa l’Italia o si muore”, altro che “stiamo correndo una maratona”, come proclamava ieri la premier. Se il giudizio sfocerà nell’inadeguatezza sarà solo il tempo a dirlo, emetterlo adesso — a meno di tre mesi dal giuramento — apparirebbe sicuramente prematuro, azzardato e dunque strumentale. Quel che però fin d’ora si può dire è che la presidente del Consiglio, terminata a questo punto davvero la liaison col suo elettorato, sta prendendo atto dell’inconsistenza di una squadra di governo che è stata frutto di un compromesso al ribasso con i riottosi, quanto ingombranti, alleati. Una compagine che appare un misto di autarchia politica e di populismo patriottico e destroide. Mentre il loro stesso blocco sociale, dai benzinai ai padroncini dell’autotrasporto ai tassisti, è già sul piede di guerra.
Il fatto è che il gabinetto Meloni risulta privo di una classe dirigente di qualità. Un intero governo, non solo una premier, “under dog”. Solo che l’umiltà vantata legittimamente da Giorgia Meloni per le origini personali finisce con trasformarsi in handicap politico se si traduce per un intero governo in modestia nell’approccio ai problemi. L’arte del governare non si improvvisa. L’incertezza e l’assenza di qualità generano ansia da controllo. Quella che ha portato due giorni fa i vertici del partito, e dunque chiaramente la stessa leader, a imporre un vincolo alla libertà di espressione di tutti i loro parlamentari.
Giusto per non disturbare la manovratrice in evidente impasse. Sullo sfondo — forse il vero motore di tutto il teatrino dilettantesco — il rapporto irrisolto con gli alleati. Improntato a una sostanziale sfiducia reciproca. Silvio Berlusconi non considera affatto la presidente Meloni una degna erede a Palazzo Chigi, ne lamenta in privato a più riprese la scarsa esperienza, imputandole la propensione a fare tutto da sola, non coinvolgendo né lui (“Non mi chiama mai”) né i suoi ministri.
Matteo Salvini ha compreso solo di recente di essere stato relegato al dicastero taglia-nastri, pur col sottotitolo di vicepremier. Ma si accontenta. Lei, in compenso, si fida poco o nulla di entrambi e sta tentando di neutralizzarli fidelizzando progressivamente i numeri due, da Giorgetti a Tajani. Se ha dovuto annullare il “conclave” di domani coi suoi è proprio per la rivolta di forzisti e leghisti: non comprendevano perché avrebbero dovuto subire ed eseguire un cronoprogramma di governo stilato dai soli vertici di FdI.
Chissà quanto potrà durare questo giochino prima che salti tutto per aria. Chissà quanto reggerà un castello così fragile sotto la pressione del caro vita, delle cambiali elettorali da rispettare, dei vincoli europei. Chissà quando gli ipnotizzati da congresso di casa Pd si sveglieranno e decideranno di fare opposizione. Lo scopriremo presto.
Ps. Il presidente del Senato Ignazio La Russa, privato appunto del vertice con la premier di domani, ha ripiegato partecipando nientemeno che all’evento milanese di presentazione delle liste in sostegno del governatore ricandidato Fontana. Come progressiva affermazione del ruolo istituzionale in qualità di seconda carica dello Stato non c’è nulla da eccepire. Il caso si conferma semplicemente uno scandalo.