Massimo Giannini La Stampa 15 gennaio 2023
La destra post-populista alla ricerca di un’ideologia
Chi è davvero questa Giorgia Meloni, leader post-missina e vagamente peronista, che oscilla tra Giorgio Almirante, Evita Melòn e adesso addirittura il Giuseppe Garibaldi di “qui o si fa l’Italia o si muore”? Un bel dilemma, in questi giorni di tormenti e risentimenti.
Nulla più della benzina accende la rabbia dei popoli contro le élite. L’America Latina brucia da mezzo secolo per le rivolte sul prezzo dei carburanti. Nel 1989 fu il “Curacazo”, che partì dai quartieri più popolari di Caracas e finì per infiammare tutto il Venezuela. Trent’anni dopo toccò all’Ecuador, dove l’aumento dei prezzi scatenò prima l’assedio dei distributori, poi l’assalto al palazzo presidenziale di Lenin Moreno, costretto a fuggire da Quito e a spostare la sede del governo sulla costa. In quello stesso anno riesplose anche il Cile, per le stesse ragioni: rincaro della “gasolina”, raddoppio del biglietto di bus e metropolitane, e inferno da Santiago a Valparaiso, città messe a ferro e fuoco dalla gente inferocita, morti e feriti tra la folla caricata dalla polizia del generale Iturriaga, autorizzata a sparare dal presidente Sebastian Pinera.
Nella vecchia Europa, vivaddio, non siamo arrivati a tanto. Ma la sommossa dei gilet gialli in Francia, innescata nell’autunno del 2018 dal boom dei costi del carburante e dall’inflazione conseguente e durata fino al 2020, segna un capitolo fondamentale nella storia e nell’iconografia dei movimenti populisti del Terzo Millennio: tre milioni di giubbotti catarifrangenti del ceto medio impoverito, in marcia sui Campi Elisi e lanciati “a bomba contro l’ingiustizia”, come la locomotiva di Guccini. Conviene partire da qui, per ragionare sul primo serio inciampo eco-socio-politico di Meloni
Nella civiltà delle macchine, e in attesa che la costosissima transizione energetica ci mostri le magnifiche sorti e progressive dell’elettrico, il prezzo della benzina resta la tassa del macinato dell’era moderna. Chi tocca non muore, ma paga pegno.
Come spiega Alessandra Ghisleri nel sondaggio che pubblichiamo oggi, la nostra presidente del Consiglio è ancora in luna di miele col Paese. E tuttavia, numeri alla mano, quella pasticciata sequenza di piccole bugie e grandi contraddizioni che la Sorella d’Italia ha profuso per giustificare il rialzo delle accise rappresenta un vero “litigio” tra lei e l’amata Patria. Il problema non è il fronte dei benzinai, cioè quei 22 mila “furbetti e speculatori” che un governo preoccupato solo di autoassolversi ha dato frettolosamente e irresponsabilmente in pasto all’opinione pubblica. Quelli fanno comunque parte della constituency elettorale dei patrioti, che dunque ne regolerà il provvisorio dissenso secondo una rigorosa logica di scambio corporativo. Il nodo vero, invece, sono proprio gli italiani, possessori di un parco circolante di ben 53 milioni tra autoveicoli, pullman, motocicli e motocarri. Gente che fa il pieno tutti i giorni, pendolari che si spostano per lavorare, “padroncini” che fanno le consegne. Poche migliaia di ricchi in Ferrari e Lamborghini, che se ne fregano degli aumenti e dei dibattiti tra economisti sulla “regressività” delle accise. Molti milioni di cittadini normali, per i quali anche solo 25 centesimi in più al litro sono un costo tutt’altro che irrisorio.
Lei stessa se n’è resa conto. Altrimenti non avrebbe convocato ben due telegiornali delle 20, per provare a spiegarsi parlando a reti unificate agli italiani già attovagliati per la cena, blitz mediatici e drammatici che faceva giusto Conte al culmine dell’emergenza pandemica. E soprattutto non avrebbe ricorretto il cosiddetto “decreto trasparenza”, inventando una “accisa mobile” e ripristinando il bonus trasporti per le famiglie più disagiate e più colpite dalla crisi energetica. Serve a poco, adesso, correre ai ripari con i pannicelli caldi, lamentarsi dei soliti “giornaloni” che mistificano o dei social ingrati che banchettano. È stato un report ufficiale del ministero dell’Ambiente (dunque il governo stesso) a chiarire che il rincaro dei carburanti non è altro che l’effetto aritmetico dell’abolizione dello sconto fiscale introdotto a marzo 2022 dal governo Draghi. Ed è la stessa Rete usata infinite volte dai picchiatori digitali della fratellanza meloniana, che oggi fa diventare virale l’ormai famoso video del maggio 2019 nel quale la “Ducia” solitaria all’opposizione fa benzina e giura “quando governeremo noi, le accise le aboliremo!”. È la Politica 4.0, bellezza, e non puoi farci niente. Detto tutto questo, ora la domanda è cosa lascia e cosa insegna, questo primo dissapore tra la premier e “la Nazione”.
Cosa lascia è presto detto. Molti veleni, tra le tre destre al governo. Ma in fondo nessuno letale per la sua sopravvivenza. Certo non è un bel vedere, soprattutto per chi l’ha votata, una coalizione che si spacca dopo appena ottantatré giorni di convivenza. Da una parte il fratello d’Italia Lollobrigida che tuona “siamo infuriati” contro gli alleati. Dall’altra i leghisti che strillano e i forzisti che imprecano, perché quella maledetta accisa la abolirebbero subito, alla faccia del “abbiamo preferito mantenerla per finanziare le misure contro i più bisognosi”, che per loro sono come i posteri per Groucho Marx: perché dobbiamo fare qualcosa per i più bisognosi? Cos’hanno fatto questi bisognosi per noi? E anche se adesso sono tutti pompieri, lo scontro sulla benzina ha riacceso braci che covano e coveranno sempre. Finché avrà sangue nelle vene, Berlusconi non smetterà di considerare Meloni un’usurpatrice e Salvini un impresentabile. E finché avrà fiato in gola, Salvini continuerà a considerare Meloni un’abusiva e Berlusconi una cariatide. Ma dove volete che vadano, adesso, il Cavaliere senza più cavalleria e il Capitano senza più soldati, tutti e due con gli stessi voti di Calenda e Renzi? Il governo fibrillerà ma non cadrà, né sulla benzina né su altro. Anzi, alle regionali in Lombardia e nel Lazio si rafforzerà, grazie anche alla complicità e alla comicità involontaria di un’opposizione sempre più imbarazzante, divisa tra il castello di Kafka e il cinepanettone di Vanzina, il congresso esoterico del Pd e le vacanze di Natale di Giuseppi. Avanti così, verso un’imperitura irrilevanza.
Cosa insegna, è questione più complessa. Ha a che fare con la natura e la cultura di questa nuova destra. Riprendo la riflessione di Giovanni Orsina, che si è chiesto quale debba essere il profilo politico di questa nuova destra che si pretende “conservatrice”, nell’era del post-populismo. Una risposta chiara non c’è. Ma a quasi tre mesi dalla sua nascita, a me sembra che la Presidente abbia già in parte superato la fase più acuta della malattia populista. Sul piano politico non c’è alcuna traccia di un superamento virtuoso della contesa tra popolo ed élite, cioè la diade “vistocongliocchi-sentitodire” che Orsina pone all’origine dell’ondata populista di questi anni. Sul piano culturale non si vede un giudizio compiuto sul passato fascista e missino, né alcuna alternativa alla scorciatoia ideologica della triade Dio-Patria-Famiglia, nonostante evochi ormai principi astratti e residuati del Novecento, “triturati per decenni dalla tarda modernità”.
Qui le incoerenze sono ancora tutte in campo. C’è la devotissima visita presidenziale a Papa Francesco, ma da “famiglia di fatto”: la premier con il suo compagno mai sposato e la piccola Ginevra, con le foto di rito e la consegna dei volumetti “Il Cantico delle Creature” e “I fioretti di San Francesco” (ed è già un passo avanti rispetto agli “atei devoti” e ai “divorziati impenitenti”, da Berlusconi a Salvini e a La Russa). C’è la rituale costruzione del “nemico esterno” che distoglie l’attenzione dal conflitto interno: così si spiegano gli anatemi contro l’Europa per la ratifica del Mes (“Non lo useremo mai, ve lo posso firmare col sangue”) o per la direttiva sulle ristrutturazioni ecologiche del patrimonio immobiliare (“Giù le mani dalla casa degli italiani!”). Ci sono le intemperanze verbali e ordinamentali di qualche ministro o di qualche consigliere locale: da Guido Crosetto che inveisce contro la Bce, scimmiottando talvolta il Fred dei Flintstones (“Giorgia, dammi la clava!”) ai consiglieri del Comune di Roma che chiedono al sindaco di impedire l’iscrizione alla scuola dell’infanzia dei figli di migranti privi di documenti regolari (“Svantaggiano le famiglie italiane che rispettano le leggi!”).
Ma a parte queste “coazioni a ripetere” e dure a morire, l’esordio di Meloni, più che una pretesa, riflette già una rinuncia. Con i suoi primi atti, la Sorella d’Italia ha saldato qualche piccolo debito con i suoi blocchi sociali di riferimento. Ma proprio la vicenda delle accise dimostra che, se una “pacchia” è davvero finita, è per noi molto più che per l’apposita “Europa Matrigna”. Dalla legge di bilancio al decreto sulla benzina, la premier non ha cavalcato “l’insurrezione populista” che l’ha aiutata a conquistare Palazzo Chigi, ma ha introiettato il principio di realtà. Non vuole vellicare il rancore del “forgotten man” contro “l’individuo anywhere”, ma in politica estera e in politica economica deve accettare il “vincolo esterno” di EurAmerica. Al di là dei proclami garibaldini rideclinati col tono del Ventennio, l’ha detto lei stessa alla convention milanese di ieri: “Faremo le scelte che vanno fatte, con coraggio e determinazione, anche se risulteranno impopolari”.
Dunque, per tornare a Orsina, Meloni non può o non sa proporre una nuova “antropologia alternativa” a quella del neo-liberismo e del globalismo, dalla quale prometteva di affrancarsi. Resta nel solco di chi l’ha preceduta, Draghi compreso. Vedremo se sarà capace di farlo in futuro. Nel frattempo, per chi a destra l’ha votata sognando la “rivoluzione sovranista” dev’essere un brusco risveglio. Per l’Italia, invece, è una buona notizia.
La destra post-populista alla ricerca di un’ideologia
Massimo Giannini La Stampa 15 gennaio 2023
La destra post-populista alla ricerca di un’ideologia
Chi è davvero questa Giorgia Meloni, leader post-missina e vagamente peronista, che oscilla tra Giorgio Almirante, Evita Melòn e adesso addirittura il Giuseppe Garibaldi di “qui o si fa l’Italia o si muore”? Un bel dilemma, in questi giorni di tormenti e risentimenti.
Nulla più della benzina accende la rabbia dei popoli contro le élite. L’America Latina brucia da mezzo secolo per le rivolte sul prezzo dei carburanti. Nel 1989 fu il “Curacazo”, che partì dai quartieri più popolari di Caracas e finì per infiammare tutto il Venezuela. Trent’anni dopo toccò all’Ecuador, dove l’aumento dei prezzi scatenò prima l’assedio dei distributori, poi l’assalto al palazzo presidenziale di Lenin Moreno, costretto a fuggire da Quito e a spostare la sede del governo sulla costa. In quello stesso anno riesplose anche il Cile, per le stesse ragioni: rincaro della “gasolina”, raddoppio del biglietto di bus e metropolitane, e inferno da Santiago a Valparaiso, città messe a ferro e fuoco dalla gente inferocita, morti e feriti tra la folla caricata dalla polizia del generale Iturriaga, autorizzata a sparare dal presidente Sebastian Pinera.
Nella vecchia Europa, vivaddio, non siamo arrivati a tanto. Ma la sommossa dei gilet gialli in Francia, innescata nell’autunno del 2018 dal boom dei costi del carburante e dall’inflazione conseguente e durata fino al 2020, segna un capitolo fondamentale nella storia e nell’iconografia dei movimenti populisti del Terzo Millennio: tre milioni di giubbotti catarifrangenti del ceto medio impoverito, in marcia sui Campi Elisi e lanciati “a bomba contro l’ingiustizia”, come la locomotiva di Guccini. Conviene partire da qui, per ragionare sul primo serio inciampo eco-socio-politico di Meloni
Nella civiltà delle macchine, e in attesa che la costosissima transizione energetica ci mostri le magnifiche sorti e progressive dell’elettrico, il prezzo della benzina resta la tassa del macinato dell’era moderna. Chi tocca non muore, ma paga pegno.
Come spiega Alessandra Ghisleri nel sondaggio che pubblichiamo oggi, la nostra presidente del Consiglio è ancora in luna di miele col Paese. E tuttavia, numeri alla mano, quella pasticciata sequenza di piccole bugie e grandi contraddizioni che la Sorella d’Italia ha profuso per giustificare il rialzo delle accise rappresenta un vero “litigio” tra lei e l’amata Patria. Il problema non è il fronte dei benzinai, cioè quei 22 mila “furbetti e speculatori” che un governo preoccupato solo di autoassolversi ha dato frettolosamente e irresponsabilmente in pasto all’opinione pubblica. Quelli fanno comunque parte della constituency elettorale dei patrioti, che dunque ne regolerà il provvisorio dissenso secondo una rigorosa logica di scambio corporativo. Il nodo vero, invece, sono proprio gli italiani, possessori di un parco circolante di ben 53 milioni tra autoveicoli, pullman, motocicli e motocarri. Gente che fa il pieno tutti i giorni, pendolari che si spostano per lavorare, “padroncini” che fanno le consegne. Poche migliaia di ricchi in Ferrari e Lamborghini, che se ne fregano degli aumenti e dei dibattiti tra economisti sulla “regressività” delle accise. Molti milioni di cittadini normali, per i quali anche solo 25 centesimi in più al litro sono un costo tutt’altro che irrisorio.
Lei stessa se n’è resa conto. Altrimenti non avrebbe convocato ben due telegiornali delle 20, per provare a spiegarsi parlando a reti unificate agli italiani già attovagliati per la cena, blitz mediatici e drammatici che faceva giusto Conte al culmine dell’emergenza pandemica. E soprattutto non avrebbe ricorretto il cosiddetto “decreto trasparenza”, inventando una “accisa mobile” e ripristinando il bonus trasporti per le famiglie più disagiate e più colpite dalla crisi energetica. Serve a poco, adesso, correre ai ripari con i pannicelli caldi, lamentarsi dei soliti “giornaloni” che mistificano o dei social ingrati che banchettano. È stato un report ufficiale del ministero dell’Ambiente (dunque il governo stesso) a chiarire che il rincaro dei carburanti non è altro che l’effetto aritmetico dell’abolizione dello sconto fiscale introdotto a marzo 2022 dal governo Draghi. Ed è la stessa Rete usata infinite volte dai picchiatori digitali della fratellanza meloniana, che oggi fa diventare virale l’ormai famoso video del maggio 2019 nel quale la “Ducia” solitaria all’opposizione fa benzina e giura “quando governeremo noi, le accise le aboliremo!”. È la Politica 4.0, bellezza, e non puoi farci niente. Detto tutto questo, ora la domanda è cosa lascia e cosa insegna, questo primo dissapore tra la premier e “la Nazione”.
Cosa lascia è presto detto. Molti veleni, tra le tre destre al governo. Ma in fondo nessuno letale per la sua sopravvivenza. Certo non è un bel vedere, soprattutto per chi l’ha votata, una coalizione che si spacca dopo appena ottantatré giorni di convivenza. Da una parte il fratello d’Italia Lollobrigida che tuona “siamo infuriati” contro gli alleati. Dall’altra i leghisti che strillano e i forzisti che imprecano, perché quella maledetta accisa la abolirebbero subito, alla faccia del “abbiamo preferito mantenerla per finanziare le misure contro i più bisognosi”, che per loro sono come i posteri per Groucho Marx: perché dobbiamo fare qualcosa per i più bisognosi? Cos’hanno fatto questi bisognosi per noi? E anche se adesso sono tutti pompieri, lo scontro sulla benzina ha riacceso braci che covano e coveranno sempre. Finché avrà sangue nelle vene, Berlusconi non smetterà di considerare Meloni un’usurpatrice e Salvini un impresentabile. E finché avrà fiato in gola, Salvini continuerà a considerare Meloni un’abusiva e Berlusconi una cariatide. Ma dove volete che vadano, adesso, il Cavaliere senza più cavalleria e il Capitano senza più soldati, tutti e due con gli stessi voti di Calenda e Renzi? Il governo fibrillerà ma non cadrà, né sulla benzina né su altro. Anzi, alle regionali in Lombardia e nel Lazio si rafforzerà, grazie anche alla complicità e alla comicità involontaria di un’opposizione sempre più imbarazzante, divisa tra il castello di Kafka e il cinepanettone di Vanzina, il congresso esoterico del Pd e le vacanze di Natale di Giuseppi. Avanti così, verso un’imperitura irrilevanza.
Cosa insegna, è questione più complessa. Ha a che fare con la natura e la cultura di questa nuova destra. Riprendo la riflessione di Giovanni Orsina, che si è chiesto quale debba essere il profilo politico di questa nuova destra che si pretende “conservatrice”, nell’era del post-populismo. Una risposta chiara non c’è. Ma a quasi tre mesi dalla sua nascita, a me sembra che la Presidente abbia già in parte superato la fase più acuta della malattia populista. Sul piano politico non c’è alcuna traccia di un superamento virtuoso della contesa tra popolo ed élite, cioè la diade “vistocongliocchi-sentitodire” che Orsina pone all’origine dell’ondata populista di questi anni. Sul piano culturale non si vede un giudizio compiuto sul passato fascista e missino, né alcuna alternativa alla scorciatoia ideologica della triade Dio-Patria-Famiglia, nonostante evochi ormai principi astratti e residuati del Novecento, “triturati per decenni dalla tarda modernità”.
Qui le incoerenze sono ancora tutte in campo. C’è la devotissima visita presidenziale a Papa Francesco, ma da “famiglia di fatto”: la premier con il suo compagno mai sposato e la piccola Ginevra, con le foto di rito e la consegna dei volumetti “Il Cantico delle Creature” e “I fioretti di San Francesco” (ed è già un passo avanti rispetto agli “atei devoti” e ai “divorziati impenitenti”, da Berlusconi a Salvini e a La Russa). C’è la rituale costruzione del “nemico esterno” che distoglie l’attenzione dal conflitto interno: così si spiegano gli anatemi contro l’Europa per la ratifica del Mes (“Non lo useremo mai, ve lo posso firmare col sangue”) o per la direttiva sulle ristrutturazioni ecologiche del patrimonio immobiliare (“Giù le mani dalla casa degli italiani!”). Ci sono le intemperanze verbali e ordinamentali di qualche ministro o di qualche consigliere locale: da Guido Crosetto che inveisce contro la Bce, scimmiottando talvolta il Fred dei Flintstones (“Giorgia, dammi la clava!”) ai consiglieri del Comune di Roma che chiedono al sindaco di impedire l’iscrizione alla scuola dell’infanzia dei figli di migranti privi di documenti regolari (“Svantaggiano le famiglie italiane che rispettano le leggi!”).
Ma a parte queste “coazioni a ripetere” e dure a morire, l’esordio di Meloni, più che una pretesa, riflette già una rinuncia. Con i suoi primi atti, la Sorella d’Italia ha saldato qualche piccolo debito con i suoi blocchi sociali di riferimento. Ma proprio la vicenda delle accise dimostra che, se una “pacchia” è davvero finita, è per noi molto più che per l’apposita “Europa Matrigna”. Dalla legge di bilancio al decreto sulla benzina, la premier non ha cavalcato “l’insurrezione populista” che l’ha aiutata a conquistare Palazzo Chigi, ma ha introiettato il principio di realtà. Non vuole vellicare il rancore del “forgotten man” contro “l’individuo anywhere”, ma in politica estera e in politica economica deve accettare il “vincolo esterno” di EurAmerica. Al di là dei proclami garibaldini rideclinati col tono del Ventennio, l’ha detto lei stessa alla convention milanese di ieri: “Faremo le scelte che vanno fatte, con coraggio e determinazione, anche se risulteranno impopolari”.
Dunque, per tornare a Orsina, Meloni non può o non sa proporre una nuova “antropologia alternativa” a quella del neo-liberismo e del globalismo, dalla quale prometteva di affrancarsi. Resta nel solco di chi l’ha preceduta, Draghi compreso. Vedremo se sarà capace di farlo in futuro. Nel frattempo, per chi a destra l’ha votata sognando la “rivoluzione sovranista” dev’essere un brusco risveglio. Per l’Italia, invece, è una buona notizia.