Massimo Gaggi Corriere della Sera 16 gennaio 2023
C’è un’«America first» di Biden (e l’Europa deve rispondere)
Il presidente Usa, pur impegnato a ricucire i rapporti transatlantici, sta dando sostegno alle imprese di casa per la transizione energetica e lo sviluppo green tech
Mentre la Nato contrasta, compatta, l’aggressione russa dell’Ucraina, soffiano venti di tempesta economica tra le due sponde dell’Atlantico: l’Europa ha scoperto solo di recente — e non ancora pienamente — le conseguenze della svolta di Biden che, per riorientare la sua industria verso lo sviluppo sostenibile ed evitare il sorpasso tecnologico della Cina dirigista, ha varato una politica industriale fatta di sussidi e incentivi imponenti, accantonando i principi del free trade.
Nell’agosto scorso, quando il Congresso americano approvò l’IRA, la legge che destina ben 370 miliardi di dollari al sostegno della transizione energetica e allo sviluppo green tech, l’Europa lodò Joe Biden: l’America tornava a impegnarsi nella battaglia contro i mutamenti climatici, dopo la defezione di Trump. Passano meno di quattro mesi e il presidente francese Emmanuel Macron, in visita alla Casa Bianca, tuona contro quella stessa legge, definita «killer delle industrie europee».
Anche il Chips Act, la legge che mobilita 100 miliardi di dollari per evitare il sorpasso della Cina sugli Usa nei semiconduttori e per sostenere la ricerca nei settori avanzati, suscita timori tra gli alleati europei e asiatici degli Stati Uniti: d’accordo sul ridurre la dipendenza dalla Cina e sul rendere meno vulnerabili i canali di fornitura di sensori e altri sistemi elettronici, ma queste misure, unite al divieto di esportare tecnologie di punta verso Pechino, rischiano di penalizzare molte imprese in Europa e in Giappone.
Cosa sta succedendo? Una risposta brutale ma non priva di fondamento è che Biden, molto più vicino all’Europa di Trump e impegnato a ricucire i rapporti transatlantici lacerati dal suo predecessore, sta comunque dando pratica attuazione al protezionismo trumpiano dell’«America First». E, avendo molta più competenza amministrativa di un Trump spesso tanto minaccioso quanto velleitario, usa strumenti più efficaci.
L’Europa ha tardato a rendersi conto che l’America stava passando dal suo tradizionale ruolo di faro del free trade e della globalizzazione a quello di potenza che decide di combattere il dirigismo della Cina, dove lo Stato pianifica e sostiene lo sviluppo tecnologico, scendendo lei stessa nel campo della politica industriale con un piano destinato a mobilitare quasi 500 miliardi di dollari di sovvenzioni. Una presa di coscienza ritardata dalla complessità di queste leggi (c’è voluto tempo per capire fino a che punto i sussidi andranno solo a imprese locali e la loro entità non è tuttora chiara) e dagli effetti non immediati: le prime misure sono entrate in vigore il primo gennaio.
Che fare? La Ue ha tre possibilità: andare allo scontro denunciando gli Usa davanti al Wto, l’organizzazione mondiale del commercio, visto che è vietato sussidiare solo imprese locali; rispondere con sovvenzioni altrettanto consistenti come sembra voler fare la Germania e come ha ipotizzato un mese fa anche il nostro ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti; negoziare con Washington chiedendo che le imprese degli alleati dell’America non vengano penalizzate da questa nuova politica industriale.
La prima strada è un binario morto: il Wto, creatura voluta soprattutto dagli Stati Uniti, ha perso credibilità e al momento è, di fatto, impotente, proprio per le mosse di Washington: la recente sentenza che ha dichiarato illegittimi i dazi a suo tempo imposti da Trump su acciaio e alluminio per motivi di sicurezza nazionale è stata respinta dall’Amministrazione Biden. Impossibile fare ricorso per imporre agli Usa di rispettare quel pronunciamento: da tempo Washington blocca le nomine nell’organismo di appello del Wto.
Quella di un cambiamento di rotta di Bruxelles con l’apertura a vasti piani europei di sussidi tecnologici e ambientali è, al momento, la strada verso la quale molti Paesi sembrano orientati. Ma si rischia una frantumazione della politica comune della Ue coi partners che vanno ognuno per la propria strada. E, dato che la battaglia si farà sull’entità dei sostegni che ogni Paese può mettere in campo, chi, come l’Italia, ha spazi di bilancio molto limitati, rischia di essere svantaggiata.
Per adesso si sta percorrendo la strada della trattativa con i rappresentanti commerciali Usa: è già stata fatta qualche concessione sull’export delle auto elettriche europee e il negoziato continua. Washington dice che non si era resa conto dei «danni collaterali» della sua politica di contenimento economico della Cina e Biden assicura di non voler penalizzare «chi collabora con noi». Ma gli spazi di manovra sono limitati. Tornare in un Congresso sempre più spaccato per modificare le leggi è impensabile. Si lavora sulle norme di attuazione, ad esempio provando a non escludere dagli incentivi Usa le auto elettriche europee vendute in America con formule come il leasing.
Ma i correttivi possibili sembrano limitati (alcuni di quelli già definiti sono contestati perché in contrasto con la nuova legge) e non solo per vincoli legislativi: Jake Sullivan, braccio destro di Biden per la sicurezza nazionale, insiste sulla necessità di «rinnovare, rivitalizzare e presidiare» il primato economico e tecnologico Usa, mentre la negoziatrice commerciale della Casa Bianca, Katherine Tai, invita Europa, Giappone e Corea a seguire la stessa strada Usa di una politica industriale fatta di incentivi, promettendo un loro migliore coordinamento.