C’era una volta il Welfare, vennero poi le emergenze geo politiche e sfide imperiali

Massimo Cacciari La Stampa 16 gennaio 2023
Così la politica ha fatto a pezzi lo Stato sociale
Tra le molte vittime che il salto d’epoca che viviamo sta mietendo possiamo ormai forse contare anche lo Stato sociale, quel Welfare vanto delle politiche europee del secondo Dopoguerra.

La crisi, anche in questo caso, viene da lontano e gli economisti più avveduti l’avevano prevista già tra anni ’70 e ’80: senza una profonda riforma dell’apparato amministrativo, senza “Stato leggero” dal punto di vista burocratico, senza costante e rigorosa spending review e, soprattutto, senza la precisa volontà politica di porre ai primi posti nella “gerarchia dei valori” formazione, innovazione, sanità, non sarebbe stato possibile sostenere politiche fiscali aggressive (anche a prescindere dallo scandalo tutto nostrano del livello dell’evasione) e l’aumento irresistibile del debito pubblico. Un Welfare tutto in deficit esiste soltanto nel libro dei sogni delle promesse elettorali che hanno nutrito la politica italiana dell’ultimo trentennio.

Nessuna forza politica, nessun governo hanno saputo affrontare il nodo, che ha finito col soffocarci. I fondi del Pnrr sono stati a ragione presentati come l’ultima spiaggia. Nessuno sa, però, che cosa sia stato davvero finanziato, che cosa progettato, che cosa cantierato; soltanto voci, spot, qui un’università, là dei ricercatori, oltre ancora una strada o uno stadio. Sotto il mantra dell’eco-sostenibilità e dell’informatizzazione di ogni buco di vita sta passando di tutto.

Magari il Ponte sullo Stretto, così si potranno spendere di un botto, come col Mose di Venezia, diversi miliardi, con un bel Commissario Unico controllato da sé stesso (e, se va bene, dalla Magistratura, ma naturalmente post festum).

È evidente che oggi in Italia non potremmo pensare neppure per ipotesi anche soltanto al mantenimento di certi livelli di Welfare in presenza di un debito che rende quasi un esercizio di retorica parlare di “sovranità” e con un’entrata per l’Irpef che viene per l’85% da lavoratori dipendenti e pensionati. Ma non si tratta, temo, ormai più soltanto delle note patologie della madre Patria. La questione va compresa nel contesto delle grandi trasformazioni sociali, da un lato, e geo-politiche dall’altro.

È in questo contesto che lo Stato sociale sta divenendo una possibilità spettrale, e che si spiegano, di conseguenza, sia la débâcle delle socialdemocrazie che la relativa ascesa di movimenti di destra. Lo Stato sociale era anche lo Stato di un certo capitalismo, non solo ancora fortemente collegato alla dimensione nazionale, ma soprattutto interessato a politiche redistributive e all’aumento del potere di acquisto di larghe masse di cittadini. La globalizzazione guidata dai grandi gruppi multinazionali dei settori strategici sfugge quasi interamente alla “presa” dei poteri politici tradizionali.

O questi ultimi si adeguano alle loro finalità, che in nessun modo coincidono con quelle del vecchio Stato sociale, o finiscono col balbettare slogan per mascherare palese impotenza. La ricchezza prodotta cessa di rispondere a una domanda collettiva. È saltata ogni mediazione tra i due livelli. Il “terribile diritto”di proprietà rivela, per così dire, la propria essenza: risponde soltanto a sé stesso, non ha doveri nei confronti di altri.

Lo stato di emergenza (Stato, appunto, e non più emergenza) tende a compiere la “operazione”. L’accentramento del processo decisionale negli esecutivi è anche l’accentramento delle decisioni di spesa in alcuni settori, al di là di ogni effettivo confronto e di ogni discussione reale all’interno delle vecchie aule parlamentari.

Anche le modalità in cui verranno usati i fondi del Pnrr esalterà comunque questa universale tendenza. Si tratta sempre di emergenze globali, e dunque la risposta dovrà essere a tutti comune. Dove viene decisa? Esiste forse una Repubblica della Terra, col suo Parlamento e il suo Governo? E tuttavia la decisione va presa. Come? La prenderanno i tecnici, gli “scienziati”. E dove stanno costoro? All’interno dei grandi apparati economici, dei sistemi tecnico-scientifici.

Lì soltanto si elaborano veramente i big data, da lì si prospettano, non è vero?, le soluzioni più razionali da comunicare ai vari governi locali, dai quali, se non desiderano la venuta di Commissari ad acta, verranno adottate.

Questo “grande schema” si è visto all’opera con l’epidemia. Ma quella fase minaccia di rappresentare un prologo da nulla rispetto a ciò che già stiamo vivendo. Lo stato di guerra è lo Stato di eccezione per eccellenza. E proprio lo stato di guerra si sta profilando, ben oltre la stessa tragedia dell’Ucraina.

La globalizzazione rivela oggi il suo volto intrinsecamente conflittuale: essa rende inevitabile il confronto tra grandi potenze. Questo confronto esige sforzi massicci di potenziamento del blocco economico-militare, da cui dipende anche in grande misura il ritmo dell’innovazione tecnologica. A oltre duemila miliardi ammontano quest’anno le spese per armamenti nel mondo. A 800 quelle americane, dodici volte più di quelle russe.

Noi spendiamo per armi 32 miliardi, oltre l’1,5% del Pil e il conto è destinato a crescere. Nel biennio 2022-23 l’Organizzazione mondiale della sanità ha un budget di poco superiore ai 6 miliardi. La distribuzione delle risorse è sempre più esclusivamente in funzione di “emergenze” geo-politiche, il cui andamento e il cui esito si decideranno in base al confronto tra i sistemi politico-economici imperiali.

Agli altri è dato solo assistere? Ci è dato soltanto averne coscienza? Di “resilienza” parla anche il nostro famoso Piano. Sapranno tentare almeno questa i nostri sedicenti eredi dell’età del Welfare?

 

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