L’Italia che si volta dall’altra parte

Maria Corbi La Stampa 16 gennaio 2023
L’Italia che si volta dall’altra parte
C’è l’indifferenza dello Stato, per questa strage di donne, ultima vittima Martina, 35 anni, avvocatessa. Ma poi c’è anche l’indifferenza dei singoli, di chi non vuole vedere, di chi preferisce non occuparsene, o comunque si ostina a sottovalutare.

 

E oltre alle pallottole di piombo sparate dal suo ex, a uccidere Martina è stata proprio l’indifferenza, una patina sottile ma velenosa che avvolge la consapevolezza di molte persone. Troppe. Che le fa girare dall’altra parte. Che le fa decidere di non «mettersi in mezzo». Chi era al Ristorante, chi ci lavora, assicura che la donna non è stata fatta uscire per forza dal bagno dove di era rifugiata per difendersi dal suo ex, un uomo con molti più anni di lei che non si rassegnava al suo allontanamento. Sicuramente è così, ma non cambia molto se poi nessuno ha pensato che Martina andasse difesa, accompagnata fuori, scortata, o semplicemente che bisognasse chiamare la polizia, denunciando quello che era accaduto. Perché in fondo quando un uomo e una donna litigano si pensa che «non sono fatti nostri». Lo abbiamo visto troppe volte, con vicini che sentivano urla e botte senza intervenire, con famiglie che assecondavano figlie e sorelle convinte che «lui sarebbe cambiato».

Nonostante il lungo elenco di donne morte per mano di chi diceva di amarle, ancora non si vuole realizzare che il femminicidio è un pericolo reale, quotidiano, nulla ha a che fare con la rabbia e il dolore per la fine di un amore, ma con il possesso, la ferocia, il controllo. Come se questi omicidi avvenissero sempre lontano da noi, commessi da persone che in qualche modo non stanno bene di mente o sono «malvagie» nel senso didascalico del termine. Questo ci rassicura, soprattutto gli uomini che non vogliono pensare a questa strage come a un problema culturale di genere. Ma piuttosto a episodi singoli, che non li riguardano. Così capita anche che per difendere il proprio sesso un conduttore di un reality ci tenga a dire che anche le donne sono violente e rimprovera una concorrente rea di aver lanciato un piatto al suo fidanzato. Invece in questa guerra il genere c’entra eccome. E basta leggere i numeri della strage. Negarlo significa entrare nel tunnel dell’indifferenza, derubricare il femminicidio a delitto «normale», dove il movente è personale.

Mentre non è così, nei femminicidi il movente è una cultura patriarcale che resiste e che vuole tenere le donne parecchi passi indietro. Il cambiamento è troppo lento, la resistenza decisa o peggio subliminale. Le associazioni che si battono quotidianamente per aiutare le donne, per educare, per mantenere alta l’attenzione hanno bisogno di rinforzi, di tutti noi. Per cambiare non solo la narrativa ma la sostanza di una società ancora maschilista nelle sue basi vogliono impegno, chiarezza, vogliono soprattutto l’esempio e il coraggio di non voltarsi mai a guardare dall’altra parte. Se pensiamo che una donna sia in pericolo dobbiamo denunciare, noi per lei se lei stessa non ne ha la forza.

Questa estate il cardinal Matteo Maria Zuppi, dopo l’uccisione a Bologna di Alessandra Matteuzzi per mano dell’ex fidanzato, disse: «Mai indifferenti davanti ai femminicidi». E ancora: «Questo dramma ripropone urgentemente la necessità di un’azione etica, culturale e pure di prevenzione, che coinvolge certamente le forze dell’ordine ma anche tutta la comunità». Anche queste parole, come tute le altre pronunciate ogni volta che una donna muore, chiarissime, sono cadute nel vuoto.

L’indifferenza ci fa diventare in qualche modo complici. Accettare l’esistenza di quello che è un vero cancro sociale significa aprire gli occhi, accogliere la necessità di cambiare schema. Una rivoluzione che per Martina, forse, avrebbe significato la vita.

 

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